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Come avanzato dalla critica, la sua scrittura è un diarismo lirico, senza date ma gremito di toponimi. Seguendo l’io poetico scorrente per gli itinerari della vita, o seduto a contemplare in bellissimi giardini (l’esempio di Naxos a Taormina, di un’isola nell’isola, amica quanto una patria ritrovata, è imprescindibile), che tanto ricordano il giardino del Paradiso e le isole dei Beati, o silenzioso e in attesa dietro il finestrino di un qualunque treno a Milano, Roma, nella fragile terra di Liguria, scopriamo che il paesaggio, percepito nel suo disteso tempo mitico, e la sovreminente presenza femminile, si riflettono uno nell’altra come il cielo e il mare. Come la vita e l’azzurro profondo, da “mangiare”. Come le colline dalle dolci forme arrotondate, che Pavese paragonava – immaginativamente – al corpo armonioso e perfetto di una fanciulla. La poesia di De Rosa, confessione e diario di viaggio, cercando il luogo di un approdo, di un contatto più stretto con l’assoluto dopo l’intermittenza dei punti di arrivo e di partenza che ha caratterizzato la sua vita adulta, e il suo lavoro di provveditore agli studi, ritrova un litorale – quello ligure, quello dell’infanzia – con la sua “nave di pietra”, punto fermo, assoluto – risolutivo. Isola (la Gallinara presso Albenga) che, se nella prima parte della vita, nei giochi di fantasia del bambino, era uno spazio mobile per immaginare, quasi un dorso di balena come la terra repromissionis di San Brendano; oggi, è molto più terra ferma che navigatio. Ma poi tutto il paesaggio di questi versi è in ugual misura motivo di spostamento – spesso pure frenetico, innaturale, dettato da una logica di modernità che più che abituarci al vero viaggio della vita getta allo sbaraglio – e motivo di approdo: lontananza e vicinanza. Sempre di bel nuovo relazione e mancanza di una figura cui rapportarsi – da attendere riflessa sul vetro dell’io poetico in tutti i suoi cromatismi.
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