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Esistono attualmente due approcci al pensiero di Vico: uno filologico-letterale, basato esclusivamente sugli scritti vichiani; l'altro storico, che tiene conto della particolare situazione in cui il filosofo era costretto a operare. Naturalmente i risultati sono radicalmente diversi: per i seguaci del letteralismo filologico (per lo più cattolici, come Augusto Del Noce, che hanno trovato uno strano alleato in Paolo Rossi) Vico era un controriformista in lotta con il pensiero moderno; per gli storici (guidati da Badaloni) era un moderno obbligato a umilianti compromessi con l'asfissiante controriformismo del Sei-Settecento. Il libro in esame è particolarmente importante perché costituisce l'ultima formulazione dell'interpretazione di Badaloni (scomparso nel gennaio 2005), rafforzata dai risultati delle più recenti scoperte archivistiche, completamente ignorate da Rossi.
Secondo Badaloni, Vico era un laico credente della stoffa di Edward Herbert, barone di Cherbury, autore delDe veritatee delDe religione gentilium, due opere condannate dalla censura pontificia. Questa interpretazione affonda le sue radici nei precedenti studi di Badaloni, a cominciare dalla classicaIntroduzione a G. B. Vico(1961).Laici e credentiè incentrato sulDiritto universale, geniale rielaborazione delDe religioneherbertiano, che consente a Vico di polemizzare con Malebranche, Spinoza e Hobbes. Badaloni afferma che Vico "si nutre della cultura della prima metà del secolo XVII", non già per "carenza di aggiornamento" (come sostiene Rossi), ma per "intima scelta e partecipazione".
Il volume di Badaloni, fondato su prove documentarie, provenienti dall'Archivio della Congregazione per la dottrina della fede, erede delle Congregazioni dell'indice e dell'inquisizione, impone un ripensamento della filosofia vichiana in rapporto alle remore imposte dalla censura cattolica, con implicazioni che investono tutti gli aspetti della nostra cultura sei-settecentesca. In primo luogo occorre distinguere fra il cattolicesimo, che i protestanti chiamavano papismo, e il cristianesimo, come risulta dalla inedita censura delDe religione, redatta da Francesco Domenico Bencini, insegnante di teologia al Collegio Urbanode propoganda Fide. Per questo censore pontificio, Herbert aveva il torto di essere il "capo deinaturalisti", ossia di quanti ritengono che si possa ottenere la salvezza eterna con la sola religione naturale, e, nello stesso tempo, negano che esista una religione rivelata, di cui si possa essere veramente sicuri. Ma Vico non esita a utilizzare il concetto herbertiano di nozione comune, fondamento della religione naturale, per costruire la sua famosa "sapienza poetica". Quindi adotta un principio incompatibile con il cattolicesimo. Il concetto di provvidenza, presente nelDiritto universalee nellaScienza nuova, è stato considerato a torto come la prova dell'ortodossia cattolica di Vico, perché, come dimostra Badaloni, si trova anche in un pensatore eterodosso come Herbert.
In secondo luogo, il carattere intimamente eterodosso del pensiero vichiano, elegantemente dimostrato da Badaloni, deve indurci a considerare in modo diverso la famosa incontentabilità di Vico, dimostrata dalla ecdotica più scaltrita, rappresentata in modo eminente dalla recente edizione dellaScienza nuova 1730, curata da Paolo Cristofolini con la collaborazione di Manuela Sanna. Quel continuo rivedere il testo non testimonia, come è stato detto, una predisposizione naturale da parte del filosofo per l'operain progress, che lo avvicinerebbe a un autore d'avanguardia come Joyce, ma è la prova drammatica della lotta impari di Vico con una censura ecclesiastica, che non permetteva a nessuno di pensare in modo originale, ed era pronta a mandare in rovina chi osasse trasgredire i suoi ordini. L'orizzonte di attesa dei nostri scrittori era costituito soprattutto dalla curia pontificia. Questo vale non solo per laScienza nuova, ma per tutta la cultura italiana dalla controriforma alla restaurazione.
Gustavo Costa
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