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Dettagli

1991
9 aprile 1991
1098 p.
9788804344513

Voce della critica


recensione di Cutrufelli, M.R., L'Indice 1991, n. 6

La sensualità e la vitalità contenuta (mai repressa) che segnano le pagine di Lalla Romano si avvertono con prepotenza e si percepiscono interamente solo in una lettura non frammentata, dispersa nel tempo, come avviene naturalmente quando, di uno scrittore amato, si leggono i libri man mano che escono, a intervalli più o meno lunghi. La raccolta nei "Meridiani" Mondadori si addice particolarmente alla produzione letteraria di questa scrittrice e non solo perché, come osserva Cesare Segre nell'introduzione, il suo discorso è "fortemente unitario". Le sue opere si trasformano, diventano quasi un testo nuovo e unico, nel contatto dell'una con l'altra, nel trascorrere dall'una all'altra: una metamorfosi che stabilisce nuove relazioni, svela segrete atmosfere e moltiplica i piani interpretativi.
Così al lettore che si pone di fronte non a un'opera ma al complesso delle sue opere, appare immediatamente chiaro l'intento e il bisogno profondo che muove la scrittrice fin da subito, dal suo primo romanzo ("Le metamorfosi", Einaudi, 1951, libro scandalosamente incurante della moda letteraria del tempo): il bisogno di catturare attraverso la limpidezza e la trasparenza della parola tutte le sfumature misteriose e ambigue che rendono la vita interessante, drammatica e purtuttavia godibile. L'autenticità è la regola e la cifra stilistica di Lalla Romano, ma un'autenticità che, per essere arte, deve essere conquistata ad ogni pagina, ad ogni capoverso, ad ogni frase.
A proposito della "donna che scrive", Lalla Romano nota: "Lo specifico donna comporta alcuni caratteri, e un particolare rischio: la mancanza di misura" ("Un sogno del Nord", Einaudi, 1989). Io non so se questo davvero sia un rischio "particolarmente" femminile, ma è certo che la ricerca di una misura è la preoccupazione costante di Lalla Romano, e che il suo rigore formale e stilistico discende da questa preoccupazione. Ma la compostezza dello stile, l'essenzialità della struttura sintattica, la severità lessicale non servono solo a contenere, bensì anche ad esaltare, per contrasto, un sotterraneo fluire di passioni. La scrittura procede per epifanie, per lampi successivi, per accumulo lento ma spietato ("La scoperta della spudoratezza è essenziale per la scrittrice moderna... Personalmente, io opto piuttosto per la spietatezza", "Un sogno del Nord") di osservazioni, immagini, azioni, ricordi che fanno affiorare con naturalezza, senza enfasi ma anche senza reticenze, intime impressioni, emozioni e complessità insondabili. Libertà assoluta, dunque, nella ricerca dei propri temi, rigore estremo nell'espressione degli stessi. L'esito di questo rigore è una sobrietà classica, uno stile semplice e diretto.
Un volumetto di poesie, "Fiore", apre nel 1941 la carriera letteraria di Lalla Romano. Dieci anni dopo, "Le metamorfosi". Un libro, come scrisse Vittorio Sereni, "fatto di sogni trascritti e riferiti", che non hanno la "parvenza" del sogno ma l'immediatezza della realtà. E nemmeno appartengono al lato oscuro dell'esperienza individuale, ma sono memoria e traccia di uno spazio e di un tempo di vita. Non vengono interpretati (non è questo lo scopo del libro), non sono connessi fra di loro ma raggruppati secondo un ordine non casuale: prima i sogni del figlio, poi quelli della madre e infine quelli del padre (più le interferenze di altri due personaggi), in modo da comporre una singolare e inedita saga familiare. Ogni sogno è un racconto in sé compiuto, un piccolo quadro senza sfumature, nitide anche le ombre. Ed è il figlio a suggerire a Lalla Romano quest'autonomia di lettura del mondo onirico: "Di quel tempo sono i suoi straordinari sogni di solitudine. Me li scriveva perché io glieli chiedevo. (Stavo componendo "Le metamorfosi" e appresi da lui quello stile secco che dà concretezza all'indeterminato dei sogni). Mi incantava l'originalità delle immagini, il ritmo sicuro di quelle piccole suites, e forse non mi allarmavo abbastanza per il loro significato" ("Le parole tra noi leggère", Einaudi, 1969).
Anche negli altri suoi libri Lalla Romano utilizzerà spesso il sogno come fosse una "cosa", un fatto, un documento, alla stessa stregua degli altri materiali inseriti nel testo e usati per leggere la realtà e dare corpo alla memoria: vecchi compiti scolastici, lettere, fotografie, disegni. Materiali che acquistano sempre più spazio, si inseriscono sempre più nel tessuto narrativo, fino a diventare i veri protagonisti di libri come "Lettura di un'immagine" (1975) o "La treccia di Tatiana" (1986).
Oggetti. Cose. Immagini, più volte scomposte e ricomposte attraverso il ricordo. L'importanza delle immagini nelle opere di Lalla Romano non deriva probabilmente solo dalla passione e dall'esercizio della pittura, ma dalla volontà della scrittrice di sfidare il "senso" della realtà ed afferrarne l'essenza a partire dalla sua materialità pura, di legare la parola, il discorso, la logica alla presenza e alla "massiccia evidenza" (come scrive lei stessa) delle cose. Mi pare, questa, una lotta in cui c'è molto dell'esperienza di vita femminile, così carnalmente legata al mondo della quotidianità. La stessa centralità della memoria e l'utilizzo di materiale autobiografico nella creazione letteraria sono scelte in parte riconducibili a questa esperienza, a uno sguardo femminile che esalta la dimensione quotidiana degli oggetti e delle cose, che affonda nell'oscurità della vita quotidiana, per riemergerne - trionfante, limpido, assoluto - quando sfiora il nesso emozionante fra sogno e realtà, fra parole e cose.
Lalla Romano scrive di "difficoltà dovute a un'insofferenza - questa proprio maschile - verso il contenuto" dei suoi scritti: "scopertamente, quasi insolentemente autobiografico, e dunque di donna". E chiede ai lettori e ai critici di non farsi sviare "dal pregiudizio del vissuto". "Rembrandt - sostiene - è più grande e tragico quando studia un uomo vecchio e deluso nella struttura e nell'impasto del suo stesso volto, che quando lo cerca in un altro" ("Un sogno del Nord").
Ma i libri di Lalla Romano non rientrano nel genere autobiografico, sono anzi la testimonianza esemplare dell'evoluzione storica di questo genere letterario, un tempo rigidamente codificato. In un saggio dedicato a questo tema (Liguori, 1990), Paola Splendore sostiene che "l'autobiografia è diventata sempre più consapevole delle ambiguità di una definizione data, delle molteplici valenze di un nome o di un pronome, della relatività della voce verità, della opacità del linguaggio", invadendo così spazi e territori che non le appartenevano, in particolare il territorio del romanzo. Per Lalla Romano, il materiale autobiografico è sostrato dell'invenzione e della ricerca letteraria, perno e pilastro della stessa struttura narrativa: un "materiale", appunto, che innesca l'immaginazione, organizza la trama, dà autenticità ai personaggi. Anche l'uso della prima persona risponde a una precisa strategia narrativa e non a un'esigenza semplicemente autobiografica.
Tutti i romanzi di Lalla Romano sono scritti in prima persona, anche se non sempre l'io narrante è un io autobiografico (soprattutto nei primi romanzi). In un caso ("L'uomo che parlava solo", 1961) la voce che narra è, anzi, una voce maschile, un monologo interiore, la ricerca dolorosa e appassionata dei motivi di un fallimento sentimentale, di un disordine amoroso. L'uomo ha una moglie che non riesce a lasciare, un'amante a cui non sa dare, una sensualità che non si esprime se non in maniera contorta, inadeguata. Uno scandaglio gettato dall'autrice in un animo maschile? L'analisi, sempre condotta sul filo della memoria, si concentra in realtà su due donne, sui desideri e le speranze, sulle illusioni e le delusioni di due emblematiche figure femminili: la moglie, appunto, e l'altra. L'io maschile è quasi uno "strumento", necessario per interrogare l'ambiguità delle passioni e delle necessità femminili. Ma poi nel racconto entra il fantasma della prostituzione. L'uomo vede, a un angolo di strada, una prostituta che sembra diversa dalle altre, così solide e commerciali, così facilmente riconducibili allo stereotipo del mestiere. Quella donna, quella prostituta, appare invece distante, quasi inaccessibile. "Sembra nobile e forse è l'unica viziosa". E l'uomo si chiede, pensando all'amante, alla sua scelta di vivere "ai margini" e alla sua libertà nell'amore: "Perché se è tutta diversa, mi fa pensare a lei? Forse assomiglia a quella che lei potrebbe diventare... Per qualcuno la tentazione è il suicidio, per lei può essere quello. Per odio di se stessa. Inutile desiderare, implorare che sia impossibile. È possibile". L'oggettività descrittiva e la dolorosa freddezza introspettiva dell'io narrante a questo punto si sciolgono in un sentimento oscuro e ambivalente, di distanza e insieme di identificazione che lascia intravedere l'io femminile che guida il protagonista, con malinconica consapevolezza.
La voce narrante di "Tetto Murato" (1957) appartiene invece a una donna che narra il suo tempo di guerra, trascorso in una sperduta campagna piemontese. Regna un'atmosfera di incantata sospensione: la guerra genera isolamento, fame, paura ma anche sospensione delle norme che regolano la vita di ogni giorno, sospensione di ogni convenzionalità nei rapporti, negli affetti e negli amori. Nel letto dove si rifugiano, all'insaputa degli altri inquilini del casolare, Giulia, Ada e Paolo (questi ultimi marito e moglie), si consumano fantasie, lunghi e complicati riti di seduzione, sentimenti d'attrazione ma anche di solidarietà. Nient'altro. E proprio per questo l'infrazione di una regola banale eppur solida di comportamento, la spontanea rottura di un conformismo che escludeva la presenza di Ada nel letto dei due coniugi, diventa un forte nucleo fantastico attorno a cui ruota l'immaginazione del lettore.
Anche, in questo libro, così denso di echi esterni e di passione civile (a cui, personalmente, Lalla Romano non si è mai sottratta, dall'impegno nel movimento Giustizia e Libertà o nei primi Gruppi di difesa della donna, alla più recente, breve esperienza di consigliera comunale), la scrittrice resta fedele a se stessa e alla sua ricerca. Una ricerca che non esclude il mondo, che anzi più profondamente lo comprende nella sua aderenza alle cose, alla realtà. Riferendosi al figlio Lalla Romano scrive ("Le parole tra noi leggère"): "Forse, dice suo padre, lui è troppo felice, troppo libero, troppo fuori del mondo per aver bisogno di scrivere. Uno scrittore non può essere fuori del mondo".

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La recensione di IBS

Poetessa e narratrice, Lalla Romano ha portato a magistrale perfezione l'arte di un autobiografismo che diventa implacabile ricerca di una verità umana: una vena intimistica, ricca di rarefatte atmosfere domestiche, solcata da "lampi di verità", fondata su un delicato esercizio della memoria e contraddistinta da una lirica essenzialità della scrittura. Il primo volume dell'edizione dei Meridiani dedicata alle sue opere contiene la produzione in versi e parte di quella narrativa, a cura di Cesare Segre.

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Lalla Romano

(Demonte, Cuneo, 1906 - Milano 2001) scrittrice italiana. Esordì con la raccolta di versi Fiore (1941), cui seguirono L’autunno (1954) e Giovane è il tempo (1974). Più significativa fu la sua opera di narratrice, iniziata con le prose di Le metamorfosi (1951) e col romanzo Maria (1953), che rivelarono la specifica attitudine a creare atmosfere rarefatte e ad analizzare affetti semplici e domestici: una poetica che toccò il momento più alto nel lungo racconto autobiografico La penombra che abbiamo attraversato (1964). Toni delicatamente psicologici caratterizzano anche i libri successivi: Le parole tra noi leggere (1969, premio Strega), L’ospite (1973), Inseparabile (1981), di impianto autobiografico. Con Nei mari estremi (1987) e Un sogno del Nord (1989) la R. tornò alla libertà inventiva...

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