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Descrizione


Tutte le poesie di Sereni. Una poesia che si colloca nell'area tutta novecentesca dell'insicurezza e del dubbio, dei destini mancati, sempre alla ricerca di una frontiera non ancora tentata, di una impossibile via di fuga. Una poesia del ritorno, della memoria che rielabora e che dà senso all'esperienza. Il curatore, Dante Isella, è autore di un ampio apparato critico-filologico, con studio delle varianti. Completano il volume, la cronologia, l'autocommento (notizie sui testi tratti dalle lettere e da altri documenti) e un'antologia della critica a cura di Pier Vincenzo Mengaldo.
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Dettagli

1994
17 ottobre 1995
1096 p.
9788804374794

Voce della critica


(recensione pubblicata per l'edizione del 1986)
recensione di Mengaldo, P.V., L'Indice 1986, n. 8

Questa edizione delle poesie di Sereni, anche se non le contiene "tutte", come disinvoltamente suona il titolo (delle importantissime versioni è data solo l'antologia da lui apprestata per Einaudi), ce le offre su un piatto d'argento: accompagnate da precise notizie bibliografiche e genetiche e da un eccellente saggio introduttivo.
Centrando il suo discorso sulla lingua, Isella fra l'altro argomenta efficacemente due tesi portanti, che mi paiono nella sostanza indiscutibili e mostrano una volta di più l'utilità delle periodizzazioni interne a cogliere la quiddità stessa di uno scrittore. L'una è che il primo Sereni, a dispetto della manualistica opposizione fra una sua poetica dell'"oggetto" e quella della "parola" dell'ermetismo in senso stretto (meridional-fiorentino), di fatto modula sensibilmente la lingua stessa generale della koinŠ ermetica e perciò- diversamente da quanto s'usa dire- si situa più sull'asse Ungaretti-Quasimodo che su quello montaliano. La seconda, complementare, e che da questo lato il "Diario d'Algeria" sta ancora tutto con "Frontiera": la rottura, e quale, avverrà solo con gli "Strumenti umani".
Questa continuità è confermabile da uno sguardo alla metrica, le cui strutture costitutive sono nelle due raccolte le medesime. Per la compaginazione dei versi si ha che lo schema egemone costituito dall'alternanza di endecasillabo (anche falso) e settenario (più raramente quinario e trisillabo) è continuamente arricchito in sfumature ed espressività da modulazioni sulle misure parisillabe, fino al decasillabo variamente ritmato, e sui multipli del trisillabo, anche al di fuori del canonico novenario (v. p. 67: "e l'ombra dorata trabocca nel rogo serale"). Basta confrontare, poniamo, "Risalendo l'Arno da Pisa" o "Un improvviso vuoto del cuore" del "Diario" con "Settembre" o "In me il tuo ricordo" o "Ecco le voci cadono" di "Frontiera". E i vari sistemi, oltre che alternare, possono, più sottilmente, sovrapporsi: ecco in "Periferia 1940", che da varii punti di vista funziona da cerniera fra le due raccolte, i versi "serba te stessa al futuro/passante e quelle parvenze sui ponti": ottonario più endecasillabo di settima uniti da enjambement, ma anche, attenuando lo stacco al confine, endecasillabo (di settima!) fino a "passante" e novenario "pascoliano" per il rimanente. Quanto all'articolazione interna dei testi, in entrambi i libri dominano le forme brevi a dittico, con stacco per lo più segnato dalla bipartizione strofica: da questo lato dunque il giovane Sereni si assesta, assai più che su Ungaretti, sul robusto tronco degli ossi di seppia e dei mottetti (del resto anche la metrica del migliore ermetismo fiorentino, non solo per gli assetti strofici, è sostanzialmente montaliana).
Ma il fatto è pure che nel Diario la lingua ermetizzante del cavaliere di grazia di "Frontiera" riveste, o piuttosto è violentemente investita da contenuti, nel senso forte del termine, nuovi e più densi e ricchi: nuovi non solo rispetto al Sereni di anteguerra ma anche rispetto alla più facile novità "resistenziale" di molti suoi colleghi pentiti dell'ermetismo (Sereni, come in diverso modo Luzi e Zanzotto, non ha mai sentito il bisogno al pentirsi dei suoi avvii ermetici). E allora lungo il "Diario" - cioè più evidentemente nella sezione eponima che ne "La ragazza d'Atene" - quella lingua pur sempre inquadrata nella grammatica ermetica, rispetto alla levitas di "Frontiera" acquista gravità e come si rapprende: il primo Sereni non avrebbe potuto scrivere versi come questi splendidi che chiudono "Sola vera è l'estate": "Ora ogni fronda è muta/compatto il guscio d'oblio/perfetto il cerchio". Nella metamorfosi per cui la parola-tema ungarettiana ed ermetica oblio si solidifica in compatto guscio, e le pause non danno più ma sottraggono aria fissando l'apoftegma lirico in una durezza da epigrafe, c'è tutto il senso della transizione, vero e proprio scatto, fra il primo e il secondo Sereni.
Anche l'attitudine narrativa, che in "Frontiera" era ancora dispersa in aneddoti e mini-novelle liriche, nel "Diario" si rassoda e direi si centralizza, diramando nelle esili nervature dell'autobiografia poetica la forza di una struttura epico-romanzesca di pregnante essenzialità. Due grandi proiezioni dell'io si accampano nel "Diario": quella del viandante nella prima parte, quella del prigioniero nella seconda (tralascio anche qui l'attuale terza parte, di redazione più tarda). "Presto sarò il viandante stupefatto/avventurato nel tempo nebbioso" dicono due versi de "La ragazza d'Atene"; dove a condensare la curvatura ancora solipsistica dell'enunciato e la rarefazione ermetizzante degli aggettivi interviene l'intensità "metafisica" del tema affidato ai sostantivi contrapposti, un tempo non più solo psicologico a fronte del quale barcolla il Wanderer, figura privilegiata, in tutta la modernità, dell'iniziazione: alla storia, alla "vita" stessa. Nella consecuzione "La ragazza d'Atene-Diario d'Algeria" si disegna nitidamente, quasi come rovescio archetipico di un diritto storico -esistenziale, un processo per il quale l'iniziazione -a un tempo avventura, scoperta più profonda di sé e fuga in un diverso spazio-tempo ("Europa Europa... sono un tuo figlio in fuga...") - si blocca irreversibilmente in prigionia: quella prigionia sereniana di cui con tutte le implicazioni si potrebbe dire, ribaltando una celebre definizione della conquista di Dio, che egli non l'avrebbe trovata se non l'avesse cercata.
L'evoluzione dal "Diario" al nuovo stile degli "Strumenti umani", alla fine nettissima, è però anche graduale anzi graduata delicatamente dal poeta stesso, come sempre: così il " Diario " accoglie una sezione più recente nella quale è perfino inserita una poesia comune agli "Strumenti" e in questa raccolta migra dalla precedente "Via Scarlatti" (ma lo stacco è segnato fra l'altro dalla presenza, in quella nuova sezione, di brani di prosa interpolati alle liriche, mentre "Strumenti" e "Stella variabile" saranno sì dialetticamente accompagnati da un'intensa produzione e quasi anfizona prosastica, ma senza esserne contaminati: la seconda edizione di "Stella variabile" espungerà appunto un racconto incuneato nella prima). La transizione è testualmente incarnata nelle liriche più antiche della prima sezione, "Uno sguardo di rimando ". A parte "Via Scarlatti" col suo lievemente arcaico taglio sabiano-montaliano, ecco ad esempio che "Un ritorno" e "Giardini" rinnovano - ma con quale maggiore larghezza di respiro e senso del legato - l'antico gusto dell'epigramma lirico; e della continuità innovativa non mancano neppur qui le spie metriche, come la distesa modulazione trisillabica che nell'una introduce il compatto terzetto di endecasillabi, e nell'altra si snoda a cavallo dei versi 2-3. Ma già in questa sezione spiccano liriche che vanno oltre quella squisitezza e sia per tonalità che per rango appartengono in tutto e per tutto al nuovo Sereni: "Ancora sulla strada di Zenna", "Anni dopo", "Le sei del mattino": nella chiusa di questa, a sospendere in controtempo la stupefatta visione di sé morto, il gusto dell'alternanza ritmica penetra nello stesso endecasillabo, piegato a un eccezionale andamento trocaico di quinta ("di Milano dentro tutto quel vento").
In che consista globalmente negli "Strumenti" la novità memorabile di tecnica, tale da produrvi quasi più un salto di genere che un semplice cambio di stile, lo spiega benissimo Isella mettendo l'accento sul complesso stratificarsi interno di un linguaggio capillarmente iniettato o intriso di "prosa", e individuando infine "la presenza persistente di una linea lirica alta... la cui tensione si regge su un libero, inventivo contrappunto affidato al livello prosastico; il quale, a sua volta, mentre funge da messa a terra di quella tensione, ne è in qualche modo toccato, percorso dal suo guizzo". Perfetto; e certo, contro il pigro mito del gozzanismo di Sereni, occorre separare nettissimamente questa contromelodia prosastica, aliena dai falsetti, dal contrappunto ironizzante della cosiddetta linea crepuscolare ancora attiva in un Giudici - per non dire dell'ultimo Montale.
La dialettica, circolarità e coinvolgimento di liricità "alta" e "prosa" (meglio: varii livelli di prosa) e organica all'atteggiamento poetico specifico di questo Sereni-assai più preparato dal " Diario " che da " Frontiera " -, cioè il compenetrarsi e scontrarsi di un'enunciazione metafisica (non orfica, per favore!) e di una esistenziale, o storico-esistenziale. Finora è stato sottolineato piuttosto il secondo aspetto, ma credo convenga, oggi, correggere se non invertire la prospettiva. Radicalizzo appena: il Sereni degli "Strumenti" è forse un grande lirico puro, metafisico e verticale, abilmente travestito per non dir truccato da poeta-prosatore e narratore esistenziale. Così, si può aggiungere, l'uomo - e un po' anche lo scrittore - celava il suo radicalismo emozionale, etico e intellettuale nelle forme (nel duplice senso del termine) della discrezione borghese, del riformismo amareggiato, dello stesso positivismo "lombardo".
Questa dialettica mascherante penetra anzitutto nei temi. Basti riflettere a come quello del viandante stupefatto permanga, mimetizzato nel rango anti-epico della "prosa", entro il motivo conduttore del viaggiatore che negli "Strumenti" e poi in "Stella variabile", attraversa inquieto e sconfitto i luoghi di un tempo non amato nelle vetture o negli aerei della società affluente. E il prigioniero d'Algeria rivive il suo sogno deietto-superbo di cattività nelle figure prosastiche della fabbrica e della stessa disumana città capitalistica (che volta a volta si rovesciano in evasioni nel "posto di vacanza", perplessi tentativi di spremerne un'umana positività, proiezioni nell'utopia della "città socialista"). Ma, ancora, spia decisiva è il linguaggio. In "Scoperta dell'odio", un pronunciamento etico-conoscitivo fra i più perentori e duri di Sereni si traveste di relatività nella sprezzata allocuzione colloquiale "gente"; e nell'esatto pendant di questa poesia, "Ancora sulla strada di Creva" , uguale funzione spetta, di fronte a una sapienzialità altrettanto assoluta, alla cadenza lombarda ("...Maschera detta amore,/bella roba che sei"). Si può pescare ad apertura di libro. Ecco il finale di "Nel vero anno zero" (le "nuove belve onnivore" che "a balzi nel chiaro di luna s'infilano in un night"). Ecco naturalmente la grande conclusione, "La spiaggia" : tutta tesa nella dissonanza - e nella climax - fra il suono sgradevolmente stridulo della "voce saputa" che "blatera" entro il ricevitore e quello sacrale del mare annunciante che i morti "parleranno"; e fra questi estremi tutta percorsa da trapassi e corti circuiti fra "alto" e "basso", grave e feriale ("Sono andati via tutti". - "Non torneranno più", e nella seconda strofa il contrasto fra la solennemente rallentata agnizione: "Ma oggi/su questo tratto di spiaggia..." e la controeloquenza, la battuta prosastica "buttata via" di "E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse").
Analoghe polarizzazioni rivelerà, ne sono certo, il panorama della cultura letteraria attiva nel poeta, finora quasi ignorato, e si capisce anche. Sereni non lascia leggere in controluce le sue fonti, le corde dell'allusione e della parodia gli sono estranee (eccezione vistosa, ma strettamente funzionale al "racconto", la mimesi dello stile di Vittorini in "Un posto di vacanza"); e ciò consegue di necessità alla fondazione non solo esistenziale ma, in senso stretto, anti-letteraria della poesia di questo artefice sapientissimo, per il quale l'esercizio lirico lungi dall'integrarsi al corpo complessivo della "letteratura" si isolava gelosamente e quasi polemicamente da questa: altro indizio della sua appartenenza di diritto alla linea "altan della lirica moderna Comunque sia, alcune connessioni che s'intravvedono tirano certo dalla parte del poeta-prosatore: come già, agli avvii, il legame, ma più nella selezione tematica che nella temperatura stilistica, con l'ermetismo "debole" e anti-orfico (Betocchi, Parronchi, Bertolucci...); o, allora e poi, il nutrimento assunto da molta prosa narrativa moderna, e direi più francese, fra Radiguet, Gide e Camus, che anglo-americana. Ma altre piste menano dritto al lirico "puro". Sospetto che in Sereni non ci sia meno Rilke - e in particolare proprio quello più sapienziale delle Duinesi - che in tanta poesia che conta dell'ultimo cinquantennio; e con quale attrazione fraterna Sereni ha guardato a Celan, l'erede maggiore della sublimità rilkiana e come lui intrinseco e traduttore di Char. E il verticalissimo provenzale è veramente una bussola della recente navigazione sereniana. In certo senso Sereni traduttore da Char parte e a Char ritorna, con diversioni e contraddizioni che si chiamano soprattutto Apollinaire e Williams. E l'acuta formula di Fortini, secondo cui nelle versioni chariane Sereni si abbandona a un sublime che in proprio si nega, è forse da ritoccare, almeno in diacronia. Negli "Strumenti", è vero, Char funge in sostanza ancora da perimetro o alone scarlatto di una rivelazione assoluta che Sereni tocca e fugge quasi affascinato d'orrore (pregnanza, anche per ciò, della magnifica epigrafe chariana apposta a "Pantomima terrestre": "...auprès des margelles dont on a soustrait les puits"). Ma altrimenti vanno le cose per il Sereni più recente. La presenza chariana è costitutiva sia di " Stella variabile ", dentro e fuori la sezione che a lui s'intitola, sia, e forse più, della prosa coeva, quella raggrumata e intensa degli "appunti del traduttore" in "Ritorno Sopramonte" ma anche quella, così diversa che nella più antica anta del dittico, della seconda parte del "Sabato tedesco". "A modo suo" e "coi suoi mezzi", ora Sereni ha veramente bevuto, in versi e in prosa, la pozione Char: intendendosi con questo nome sia l'estremo lirico che così si firma sia la funzione da lui rappresentata.
Anche questa via consente l'ingresso a "Stella variabile". Subito vi risalta la coesistenza di due maniere: un procedere fluido e diffuso, stratificato e avvolgente-conglobante, che continua quello degli "Strumenti", e una liricità compatta, compressa e chiusa in se che appare e in parte è anche un ritorno ai modi del "Diario".
Lo stesso composto linguistico sembra sul punto di scindersi: a una più spinta e stridente sprezzatura nel registro basso ("A certi che so non gli basta... ", "sbrego", "Bellissimaaa", "di brutto", "sbrego", ecc.) risponde il non raro candirsi del registro alto in partiture araldiche e raggelate (penso alla pittoricità sontuosa di "Addio Lugano bella", al "vello dei dirupi nel velluto" di " Interno ", ai verbi di colore più che preziosi di p. 281): e la sempre cercata tensione fra i due poli ne acquista, come appunto a p. 281, un più accusato raschio di dissonanza. Anche in questo " Stella variabile " sta agli "Strumenti" un po' come la "Bufera" alle "Occasioni".
Il fatto è che l'ultima raccolta, mentre sembra tenere le posizioni su cui era attestata la precedente, ne constata sul campo l'indifendibilità e le abbandona al prossimo occupante, o al deserto. Il metodo poetico dell'avvolgente approssimazione esistenziale, ricca di confronti e di mediazioni, a un "vero" metafisico, ora è come se liberasse allo stato puro i propri elementi, lasciandoli orbitare nel vuoto. L'io giace irrelato a una realtà che lo ignora, anzi espelle (p. 260), rispondendo col suo mutismo al mutismo che lo invade (p. 239); l' "inchiesta" si ravvolge e ristagna, come meglio di tutto dice con la sua grandiosa angustia la pur alta costruzione, che continuamente si avvita e ricade su di sé, del poemetto " Un posto di vacanza ", e la verità si dà ormai come immediata e lancinante rivelazione del negativo.
La resa, disperatamente lucida, al vittorioso assedio del negativo è segnalata da una serie sistematica di immagini-concetti allarmanti che si aggirano negli ambiti confinanti della vana dispersione ed emorragia (cifra questa cui Sereni critico aveva genialmente ricondotto il poetare dell'amato Apollinaire) e della stagnazione e cristallizzazione in non-essere. E dunque (offro appena una traccia per il lettore) si susseguono in altrettanti precipitati: l'attimo di cecità e silenzio, il rigirarsi e arrotolarsi su di sé di ogni cosa, il dissanguarsi della memoria, l'omissione il mancamento il vuoto, l'amnesia e il sonnambulismo, lo specchio uniforme e immemore, la destituzione, il sonno-morte, il domani come inappartenenza, il colore del vuoto che è di tutti il più indelebile; e via dicendo inesorabilmente.
Questa percezione di sé e dell'essere come sperpero o glaciazione può assumere trasparenti correlati nella forma, che volentieri tende ora al gomitolo e alla spirale (parte finale di "Posto di lavoro, Lavori in corso III" ), ora alla "martellata lentezza" -così un perfetto titolo-, come nella mirabile contemplazione dell'essenziale di "Fissità" ("una fissità./Ogni eccedenza andata altrove. O spenta"). E la tecnica articolatissima della ripetizione, già strumento privilegiato del pathos dubitante della ricerca, qui, quando non veicola precisamente l'amara revisione del proprio passato, residuando la differenza da quello come scacco e strozzatura, diviene sempre più ciò che in precedenza era solo talvolta, segno di un esasperante piétiner sur place e vera e propria tautologia (v. esemplarmente p. 266). Non per niente il viandante del "Diario" e degli "Strumenti" si scopre ora un "trapassante" (p. 272), e il tema là minacciosamente strisciante del viversi come un morto in "Stella variabile" si assolutizza senza remissione. E come formula decisiva del nichilismo dell'ultimo Sereni valga quella, così frequente, per cui le immagini, di ogni tipo, di sperpero, ristagno, falso movimento si cristallizzano finalmente nell'assoluto del negativo e del nulla. Il "tempo indifferente" si capovolge nel "pedalare all'indietro/lungo un muro di nausea" di "quelli che erano - o parevano - arrivati di slancio"; l'intravvedere si converte in non vedere; il dormiveglia-sogno precipita nel sonno-morte; lo svaporare dell'estate diviene "mortale calcinazione"; il viaggio "di tunnel in tunnel" è percorso dall'abbagliamento alla cecità. E quel convertirsi dinamico, attraverso parola e memoria, dello spazio in tempo che negli " Strumenti " aveva costituito ad esempio il fascino grave della scoperta di Amsterdam, ora, distruggendo la "recidiva speranza", si trasforma in questa fredda vertigine di ossimori e catacresi: "attonito/di tempo pietrificato in spazio/di mutismo".
Sviluppando impavidamente il proprio "esistenzialismo storico" (Fortini) di matrice montaliana, il poeta di "Stella variabile" lo spinge di fatto a un punto di non ritorno, esaurendolo se non liquidandolo. E, dev'esser chiaro, in modi diversissimi da quelli dell'ultimo Montale: che, non senza cinismo, ha tentato di salvare il potere carismatico delle occasioni privilegiate, angeli mediatori fra esistenza e verità metafisica, con lo stemperarle in una continuità quotidiana che, al suo cinque per cento vitale, continua però a volersi esemplare, sostituendo al lampo dell'agnizione la discorsività del commento affabulante e disincantato. Sereni, più realista del re, non si è lasciato questa via di scampo, che tanti altri oggi variamente percorrono. Se nichilismo dev'essere, nichilismo sia: abbagliamento accecante e pressione schiacciante del silenzio sulla parola, che perciò non può dire più quel nulla attraverso il discorso ma negli interstizi, sacche e rovesci di questo. Il solido nulla cui è approdato tutto un esaurimento individuale e storico è guardato con una fissità così spietata e ineluttabile da rendere la lettura del libro, alla lettera, quasi intollerabile. E da produrre risultati di poesia forse meno organici e compatti, globalmente, degli "Strumenti umani", ma bene spesso non meno alti. In altri termini. L'autore degli " Strumenti " sapeva, hegelianamente, che la poesia, dimorando nel "regno infinito dello spirito", non può che sottrarsi alla "indigenza... della prosa"; ma sapeva insieme affrontare le necessarie vendette della prosa. Sapeva bene come l'onore del lirico moderno che non voglia ridursi ad ordinario amministratore o a falsettista, debba giocarsi entro il rischioso territorio del "grande stile"; ma sospettava che altrettanta verità si contenesse nella battuta di Fontane, maestro dell'understatement e alto cantore della "prosa della vita": "La grandezza dello stile ignora e passa sopra a tutto ciò che umanamente è interessante". L'ultimo Sereni sembra abitare ancora il luogo della mediazione fra le due istanze; ma il suo vero indirizzo non è più quello.

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Vittorio Sereni

1913, Luino

Poeta, scrittore e traduttore italiano. Trascorse la giovinezza nella sua città natale, per trasferirsi all'età di dodici anni a Brescia. Gli anni trascorsi a Luino furono decisivi e lasciarono un'importante impronta nella sua produzione successiva.Compì gli studi a Milano dove conobbe giovani che avevano i suoi stessi interessi letterari: erano Anceschi, Vigorelli, Sinisgalli, Gatto e Quasimodo. Nel 1937 due sue poesie comparvero sulla rivista «Frontespizio». Si legò poi al gruppo di giovani filosofi che facevano capo ad Antonio Banfi e agli artisti di 'Corrente'. Aveva appena iniziato la carriera di insegnante, quando venne richiamato alle armi. Fatto prigioniero dagli alleati in Sicilia nel '43, venne deportato in Algeria e Marocco. A queste esperienze...

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