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A parte il primo racconto sui girovaghi del trio Mystic, tutti gli altri hanno ben poco di onirico o surreale; sono al contrario brandelli di realtà minime, ripetute con piccole varianti, frutto delle ossessioni quali il rapporto con la propria terra. Anche lo stile è piano, secco ma delicato, più vicino al sonno che al sogno...
Recensioni
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Appare quantomai congeniale, appropriata, la scrittura asprigna, meticcia (frutto di vitale e diversa origine linguistica), felicemente anticheggiante - la scrittura carsica di Tomizza nel restituire, nel rappresentare, il suo mondo onirico. Nel chiaro della notte è uno dei libri più intensi dello scrittore istriano, testamento spirituale forse più di quanto non lo siano stati i Rapporti colpevoli (Bompiani, 1992). Perché qui l'autore ci racconta non già i suoi sentimenti, pentimenti e dolori, bensì il suo inconscio, il mondo incontrollabile della coscienza. Il libro si divide in tre parti: Frontiere, Vita d'esilio e Capricci, ciascuna delle quali raccoglie una ventina di racconti brevi e brevissimi, talvolta di mezza pagina. Sono lacerti, immagini fulminee, novelle di sapore aforistico, ricordi sparsi: sono i sogni dell'autore, l'universo insondabile di paure, desideri, speranze, rimpianti di chi ha vissuto nei difficili territori della frontiera. A lasciarli scorrere, questi sogni, questi racconti, sembra di assistere a una rappresentazione scenica, filmica, dove la frammentazione, l'epifania, la magia diventano metafora di quell'inquieto mondo balcanico di cui Materada - la Materada allegorica ma anche reale di Tomizza - è periferia e limite. Il racconto più significativo è il primo, Trio Mystic. Nel sogno un Tomizza giovane studente incontra una piccola compagnia di girovaghi: il "severo Mystic", forse zingaro di origine rumena, forse un ebreo polacco, mago capace di ipnotizzare le sue vittime; la sua compagna Albina, "che portava un cognome austriaco", e la loro bella figlia Rosa, ribattezzata Rosa Mystica, della quale inevitabilmente il narratore si invaghisce, al punto da unirsi egli stesso alla compagnia in un lungo viaggio attraverso la Jugoslavia. È un viaggio simbolico: "L'intera Jugoslavia, che oggi non esiste più, la cui popolazione maggiormente provata dalla guerra per le secessioni sta trovando riparo nelle nostre case abbandonate d'Istria, mi sfilava davanti scomponendosi e ricostituendosi di continuo come un paesaggio di sole nuvole, come se tutti i circhi e i teatri d'Europa si fossero allineati per nazione sulla medesima strada". In questa folgorante, aperta metafora di vita e di condizione (ricordiamo che in passato Tomizza subì aspre critiche per la scelta di tornare nella casa della sua terra natia diventata Jugoslavia, oggi Croazia) sta il nucleo palpitante del libro. La cui sequenza di incubi, visioni, fantasticherie si dipana in un continuo scorrere di microstorie ora gaie, ora tristi, ora allucinanti. le ossessioni, o meglio i temi portanti della narrativa di Tomizza, ci sono tutti, e assumono forme in parte già sperimentate in altri libri, a cominciare da La quinta stagione (1965), e soprattutto L'albero dei sogni (1969). L'identità frammentata, la memoria ferita, il tradimento, la minaccia dell'altro, la perdita dei riferimenti, lo spaesamento, il rimpianto, i rapporti generazionali, il legame indissolubile tra l'uomo e la natura, il confronto-scontro fra città e campagna, la rabbia, assumono in queste pagine le apparenze, le fattezze a volte di grandi topi, o sciami di mosche, rovine, donne violentate e crocifisse, spettri, volti e nomi che riemergono prepotenti da un passato che sembrava perduto. La casa - a volte violata dai profughi bosniaci, altre volte minacciata dagli animali o dalle intemperie - è presenza costante nei sogni del narratore. Così come il bisogno di volare, di spostarsi, magari di raggiungere Milano in nave, attraverso un mare inesistente che segna la distanza siderale capace a volte di separare realtà in fondo non troppo distanti. Se in Frontiere la narrazione onirica racconta di una terra e dei suoi abitanti, in Vita d'esilio il tema predominante è quello della famiglia, degli affetti e della casa, mentre i Capricci sono dedicati al mestiere di scrittore, alle piccole grandi ambizioni, alle piccole e grandi delusioni: cui la parola scritta, sembra averci voluto dire Tomizza, il gioco delle parole e dei linguaggi può dare ancora un mesto, vago sollievo. E di fronte al plotone di esecuzione che, a Zagabria, sta per fucilarlo in seguito al furto di un frutto compiuto da bambino ("quando mio padre cominciava a saggiare la persecuzione del nuovo regime politico in Istria"), il narratore potrà ancora con amaro sorriso appellarsi al superiore tribunale di Parigi: "E se cercassi pietà argomentando amaramente: 'Est-ce que vous me voulez frit pour le furt d'un fruit?'". Nel chiaro della notte rimane l'ultimo messaggio di uno scrittore che senza clamori ha speso la sua vita e la sua opera nel difficile, a volte disperato tentativo di conciliare diversità e di gettare ponti per superare laceranti confini.
recensioni di Spirito, P. L'Indice del 1999, n. 07
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