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L'edizione dell'opera integrale, realizzata da Mario Lavagetto e da un'équipe di collaboratori (Nunzia Palmieri, Fabio Vittorini, Clotilde Bertoni, Federico Bertoni), rappresenta un'impresa davvero memorabile: più di cinquemila pagine di "Meridiani" restituiscono praticamente tutto ciò che Svevo ha avuto modo di scrivere. Mai come in questo caso il lessico, talora asettico, della filologia copre con una carezza l'opera di uno scrittore vissuto nella convinzione che fuori della scrittura non vi sia salvezza. Svevo non è quello che visse, ma quello che descrisse, sembrano sussurrarci con affettuosa partecipazione i curatori.
Ci sono, naturalmente, i testi. C'è, soprattutto, di ogni singola opera, "l'apparato genetico", che restituisce a bozze, prime e seconde edizioni, varianti, testi a stampa e continuazioni, il valore di un corpo vivente. Manca soltanto un'edizione parimenti "genetica" dell'epistolario, ed è ormai una piccola colpa, che chiede, se è lecito, vendetta. Come sanno gli appassionati, l'epistolario racchiude una delle parti più alte, non solo letterariamente, della produzione sveviana: una testimonianza raffinata e al tempo stesso sottilmente ironica sulla cultura italiana ed europea fra Otto e Novecento, oltre che un minuzioso affresco del microcosmo triestino di provenienza.
Difficile dare conto di un lavoro così complesso. Semplificando di molto le cose si potrebbe dire che l'aspetto più rilevante viene dagli apparati testuali e, paradossalmente, dalla cronologia. Ciascuna delle due componenti, nel suo genere, rappresenta un piccolo gioiello. Gli apparati critici sono esemplari per chiarezza ed efficacia: rimettono ordine in un materiale disomogeneo, talora edito in maniera confusa. Dal primo di questi "Meridiani", quello con le cosiddette "continuazioni" della Coscienza di Zeno, si esce finalmente con le idee chiare sui modi e, soprattutto, sui tempi, delle realizzazioni di capitoli contro i quali spesso si è scatenata la fantasia a-filologica degli improvvisatori. Lo stesso si può dire del teatro, o degli scritti autobiografici, cui giustamente Lavagetto attribuisce molta importanza. "Ho la matita e un pezzo di carta in mano": è un classico incipit sveviano, che non poco tortura il filologo. Qualche tempo fa un brillante svevologo inglese, Brian Moloney, ha raccontato le disavventure di uno di quei pezzetti di carta, insolentemente finito nel manoscritto del romanzo maggiore. E lo stesso Moloney, con John Gatt Rutter, ha da poco fatto riemergere i foglietti affidati a postille giornalistiche di un narratore che non disdegnava di dettare al telegrafo.
Un po' meno convincente appare il commento, forse anche per la dimensione abnorme delle note. Il discorso vale soprattutto per i tre romanzi. Esistono del resto ottimi commenti, che hanno chiarito quasi tutti i punti oscuri (un bravo medievista dovrebbe però dare una mano per quella stramba allusione, ancora poco chiara, alla magistratura degli Otto di Guardia creata a Firenze nel 1378 e da Zeno usata per strapazzare Guido Speier). A questi precedenti commenti, per i punti più oscuri, i curatori sostanzialmente si attengono, non aggiungendo molto di nuovo, anzi talora calcando un po' la mano, come nel caso in cui, a proposito della morte del padre, sullo slancio della presenza, certo pervasiva, del melodramma nella Coscienza, si arriva a dire che la lunghezza dell'agonia riecheggia la morte di Violetta nella Traviata. Le ultime conversazioni di Zeno con il padre malato toccano, com'è noto, Renan e Strauss, il povero Francesco Maria Piave si sente a disagio.
Il vero punto forte di questi "Meridiani" viene tuttavia dalla cronologia. Lavagetto è diventato un maestro insuperabile nella stesura di questo che non a torto il lettore considera il centro dei "Meridiani". L'introduzione riprende molte sue pagine precedenti, già assai note, e non ancora toccate da questa specie di stato di grazia, che conferisce alla cronologia il valore di un libro dentro il libro. Volentieri si sorvola sul piccolo errore nel quale, all'inizio, anche Lavagetto incorre, riferendo all'ebraismo la parola "assimilato" scritta nel Profilo autobiografico (dove, invece, dal contesto risulta del tutto chiaro che di assimilazione all'Italia di un triestino si parla, non dell'ebreo Schmitz: in quegli anni la parola "assimilazione" non aveva infatti il senso negativo che oggi le attribuiamo).
Sarebbe anzi auspicabile una maggiore diffusione, anche scolastica, di questa cronologia – una quarantina di pagine fitte fitte – che supera, per chiarezza e sistematicità, le nostre conoscenze comuni e integra arricchendole di osservazioni acute le biografie di Enrico Ghidetti e John Gatt Rutter. Un tocco lieve e sottile di ironia ci accompagna per mano, giorno dopo giorno. Con gli anni poi è venuto meno quel tono di asprigno sarcasmo che Lavagetto forse aveva ereditato da Giacomo Debenedetti, caustico smascheratore di molte delle bugie sveviane. Pietose bugie, adesso; non più menzogne. Con gli anni cresce l'affettuosa compartecipazione del critico verso un autore cui ha dedicato così tante e lodevolissime fatiche, alle quali ognuno di noi deve molto. La lettura della cronologia è veramente gradevole: la si potrebbe considerare, non a torto, come la migliore introduzione alla lettura di Svevo oggi esistente.
ALBERTO CAVAGLION
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