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L' alibi della resistenza. Ovvero come abbiamo vinto la seconda guerra mondiale - Gianni Oliva - copertina
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L' alibi della resistenza. Ovvero come abbiamo vinto la seconda guerra mondiale
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L' alibi della resistenza. Ovvero come abbiamo vinto la seconda guerra mondiale - Gianni Oliva - copertina
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Descrizione


In tutte le città italiane la guerra fascista combattuta "accanto" a Hitler (1940-43) viene ricordata insieme al suo opposto, la guerra antifascista combattuta "contro" Hitler (1943-45): le lapidi alla memoria dei soldati morti nelle campagne dei Balcani o disperse in Russia stanno fianco a fianco con quelle dedicate ai partigiani caduti e alle vittime dei lager. Gianni Oliva parte da questa osservazione per interrogarsi sulle ragioni per cui il nostro Paese non ha fatto i conti con il proprio passato.
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Dettagli

2003
121 p., Rilegato
9788804524069

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christian
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E' la sintesi delle analisi sviluppate nelle opere pubblicate da Oliva sul periodo '43/'45. Ha il grande pregio di essere accessibile anche per chi non è appasionato di storia e propone una profonda critica verso la retorica resistenziale, troppo spesso mero strumento politico, che ha impedito alla maggioranza degli italiani di fare i conti con il ventennio fascista. Oliva, è lontano dal revisionismo di destra, non giustifica nulla, si limita a proporre un'analisi obbiettiva dell'esperianza resistenziale.

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gloria
Recensioni: 5/5

Il testo richiede molta attenzione . Ogni rigo deve essere letto bene pesando tutte le parole di Oliva il quale, peraltro, ha ragione da vendere . Il fatto che gli Italiani, o parte di essi, si siano sottoposti a training autogeno per garantirsi l'auto-convinzione e certezza di aver vinto una guerra assolutamente persa su tutti i fronti (anche morale) , può essere stato comprensibile per le generazioni del periodo post-bellum . Ma oggi, che le verità sulle foibe, sulla guerra civile , sulle campagne di Russia , di Albania e d'Aafrica e tante altre vengono a galla e tante leggende metropolitane , a giusta ragione, vengono sdrammatizzate e cancellate dai libri di storia grazie a testimonianze e documenti, è giusto che si cominci a sapere e capire com'è andata.

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Voce della critica

In poco più di cento pagine Gianni Oliva ha scritto un saggio denso ma chiaro, che ha il merito di suscitare utili interrogativi e di gettare una luce nuova su molte questioni. La tesi di fondo è che la Resistenza è stata usata dalla classe dirigente dell'Italia repubblicana come alibi per non fare i conti con una guerra almeno altrettanto perduta che vinta, la guerra fascista, e quindi anche - più alla lontana - con il passato fascista tutto intero del paese; e che è stata inoltre interpretata come punto d'arrivo e di chiusura di un moto di riscatto nazionale e non come punto di partenza di un processo di rinnovamento che in essa aveva solo il suo primo atto. Su questa interpretazione limitativa e autoassolutoria si sono sedimentate le incrostazioni di una memoria reticente e irriducibilmente divisa, che pesano tuttora.

Oliva riconosce che l'idea della Resistenza come alibi non è nuova: e che è stata sposata soprattutto da una storiografia e da una pubblicistica tese a ridimensionarne l'importanza e il valore fondativo nella storia dell'Italia repubblicana (quella, per semplificare, che si è riconosciuta nella fortunata formula della "morte della patria"). Questa corrente storiografica ha sostenuto che la Resistenza - movimento di minoranza che non ha coinvolto se non un'élite e un esile strato di popolo, urtandosi per il resto nella passività e nell'indifferenza - ha funzionato come elemento di legittimazione a posteriori di chi ha occupato lo spazio lasciato vuoto dal crollo del fascismo: un antifascismo a sua volta minoritario ed estraneo al comune sentire del paese. In realtà, malgrado la scelta a mio avviso non felice del titolo (il quale suo malgrado rischia di collocare il saggio in una compagnia che non gli è congeniale), il saggio di Oliva non solo non appartiene a questo filone, ma offre molti spunti per attaccarlo sul suo stesso terreno e svuotarne gli argomenti.

La novità della sua interpretazione consiste infatti nel sottolineare che l'"alibi" della Resistenza è stato almeno altrettanto funzionale al progetto politico delle forze moderate e conservatrici che al disegno di autolegittimazione della sinistra e in primis dell'ex Partito comunista. I conservatori sono anzi stati i primi a servirsene nei modi più diversi e più spregiudicati. Diversi esempi che Oliva fornisce fanno riflettere. Il più significativo, e quello su cui fornisce l'apporto più originale, è la memoria reticente e indistinta delle "vittime nella seconda guerra mondiale", che ha in fondo anticipato in modo non dichiarato l'ansia di "pacificazione" tornata alla ribalta nei primi anni novanta, accomunando nel ricordo dei cippi e delle lapidi i caduti di El Alamein e della Russia (e dunque di guerre di aggressione) a quello dei partigiani o dei deportati. Ma sono richiamati anche opportunamente il fastidio con cui sono stati relegati nell'oblio i prigionieri e gli internati, la rimozione del ruolo svolto dall'Italia fascista come potenza occupante e la conseguente sottile omertà che - in una forma di tacito scambio con la rinuncia a perseguire i responsabili delle stragi naziste in Italia - ha impedito l'estradizione dei responsabili di crimini contro le popolazioni civili nei Balcani; fino al tema scottante, e dall'autore già affrontato in modo equilibrato in altra sede, delle foibe e dell'esodo dei profughi giuliani.

Due riserve si possono avanzare nei confronti di questo impianto interpretativo. La prima tocca le concessioni eccessive alla tesi del carattere minoritario del fenomeno resistenziale, concessioni che da un lato non tengono conto di una sua rilettura che va al di là dell'aspetto della lotta armata, e dall'altro troppo poco mettono in luce il valore del legame del movimento di liberazione con l'antifascismo del ventennio. La seconda riguarda l'auspicio un po' rituale, posto a conclusione del saggio, che si arrivi finalmente a una memoria condivisa. In una storia percorsa da fratture così profonde come quella del 1943-45 (ma anche del 1919-22) è illusorio pensare che la memoria possa comporsi in modo unitario grazie a un semplice atto di buona volontà. Forse proprio il discorso di De Gasperi alla conferenza di pace di Parigi, che rivendicava "la responsabilità e il diritto di parlare come democratico e antifascista", e che Oliva assume come paradigmatico di una volontà di rimozione e autoassoluzione, offre ancora oggi, nella sua sobria elencazione di dati, e nella sua enunciazione finale dei valori fondativi della repubblica, il punto di partenza possibile per fare davvero i conti con l'eredità della guerra e della Resistenza.

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