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Giuseppe Pontiggia manca alla cultura italiana. La presenza del Peppo - così lo chiamavano gli amici - era rassicurante. Sapevi che con lui potevi parlare di tutto e che insieme a lui tutto era sperimentabile. La sua fiducia diventava la tua fiducia. E non si trattava di uno stupido ottimismo, ma di un sì nato dall'esercizio di una ragione luminosa.
Questo sì era divenuto con gli anni sempre più saldo e diramante. Il Peppo l'aveva innanzitutto detto a se stesso. E si sentiva che nel suo essere uomo dialogico c'era un nutrimento sotterraneo, mai esplicitato del tutto, mai esposto in pubblico, che era nato dallo stridore della vita quotidiana, dalla tortura di un essere ragionevole ma esposto alle intemperie esistenziali, alle infinite "ironie della sorte".
Incontrarlo dava subito l'idea dell'affidabilità e della serietà. Pontiggia non improvvisava nulla. Era un artigiano puntuale e sicuro. Se lo invitavi a tenere una relazione, stai certo che arrivava con un testo pronto, frutto di un lavoro serio e pertinente, ma era anche capace di rispondere alle sollecitazione momentanee dell'uditorio, riconducendo il tutto alle linee portanti di un discorso comune.
Essendo passato per le complicazioni delle neoavanguardie ("Il Verri", soprattutto), aveva scelto la chiarezza, ma senza nessuna semplificazione. Sapeva benissimo che la chiarezza la si conquista con un lavoro duro e con una pazienza infinita. Ma lui non si spaventava, né si tirava indietro. Viveva la sua individualità come un suono, situato in un concerto complessivo. Un suono preciso, articolato, sempre carico del ricordo del passato, sempre pronto alla possibilità del futuro.
Aveva definito i classici come i "contemporanei del futuro". Bella e intrigante definizione, e soprattutto utile.
Parlare di Pontiggia senza Pontiggia non è dunque facile. Anche perché i suoi libri erano sempre in progress. Ma più quelli del passato che non quelli del presente. Di Nati due volte, ad esempio, diceva che difficilmente avrebbe cambiato qualcosa. Cosa rara, si riconosceva pienamente in quel libro che aveva miracolosamente messo d'accordo tutti.
Essere morto all'indomani di quel libro dà insieme l'idea della raggiunta compiutezza e di una nuova apertura verso la "prima persona". Pochi come lui hanno creduto nell'importanza della finzione e nel primato dell'immaginazione.
Praticate nella tessitura di romanzi, doppiate nella polifonica saggistica, entrambe le cose stavano forse saldandosi in un punto di convergenza inaspettato, né autobiografico, né fuori dalla forma della letteratura. Eppure la "prima persona" andava conquistandosi uno spazio nuovo e confortante, in un autore che gli aveva spesso anteposto la terza.
Con una rapidità data dall'affetto dell'editore, per il quale aveva a lungo lavorato come consulente, e dalla sicura competenza di Daniela Marcheschi, curatrice-amica, eccoci a sfogliare un "Meridiano"-Pontiggia. E a ripercorrere la sua lavoratissima parabola, da La morte in banca a Prima persona, passando per L'arte della fuga, Vite di uomini non illustri e i libri saggistici, soprattutto Il giardino delle Esperidi, una delle raccolte più belle e nutrienti prodotte in Italia nel secondo Novecento.
Quanto ha lavorato, il Peppo! E quante volte ha anticipato i tempi. Colpisce, ad esempio, la data di pubblicazione del Giocatore invisibile, il 1978. In quella fine degli anni settanta c'era chi, come Calvino, ad esempio, cercava una rinnovata possibilità fabulatoria, strade nuove sgombre per il romanzo. L'anno successivo al libro di Pontiggia, infatti, uscirà Se una notte d'inverno un viaggiatore. Leggendo la cronologia del "Meridiano", non può non sfuggire la lettera nella quale Calvino dice a Pontiggia: "Alle molte lodi che ha ricevuto voglio aggiungere le mie, rallegrandomi della Sua bravura, della Sua esattezza, della Sua spietatezza di sguardo. E sono contento che Lei abbia scritto un vero romanzo, che si fa leggere con gran divertimento; mi pare la via giusta".
Ma quella via giusta, era per Pontiggia una via faticatissima, piena di correzioni di rotta, che però non mettevano mai in discussione una regola fondamentale: si scrive per un pubblico, che bisogna sedurre, che bisogna informare, che bisogna stupire, che bisogna, quando è necessario far lavorare nel lavoro della comprensione.
A Pontiggia piacevano i fulmini verbali, gli aforismi, la sua opera è tutta intensamente tramata di frasi concise e memorabili. A volte ne abusava, e se se ne rendeva conto poneva rimedio nelle edizioni successive dei suoi libri.
A Pontiggia, inoltre, piaceva scrivere i dialoghi. Se ne è inventato di perfettamente ritmati, tutti ben incastrati e pieni di sottintesi e di allusioni. E quanto umorismo, spesso amarissimo! Era come un aprire le braccia davanti alle insufficienze degli uomini come esseri parlanti, ma anche un ribadire la meraviglia della comunicazione, quando avviene, è chiaro.
Non saprei dire oggi quanto l'opera di Pontiggia crescerà nelle considerazioni comuni che riguardano i valori della nostra letteratura. So che l'ultimo suo libro, Nati due volte, non lo dimenticheremo facilmente. È il suo lavoro dove si avverte il desiderio di abbandonarsi, di dire anche senza aver provato a millimetro ogni parola. Tutto cade a piombo, certo; però c'è una mescola tra essere un uomo che racconta le sue esperienze ed essere uno scrittore che scodella le sue parole davvero inusuale.
In un passo autoriflessivo del romanzo si legge: "Per un narratore il male è la salvezza, il bene la perdizione. L'elogio del bene ha inquietato perfino il sonno dei classici ed è stato l'incubo della loro veglia. Manzoni, per farselo perdonare, ricorre all'ironia, Cervantes alla follia, Dickens alla stupidità, Dostoevskij all'idiozia, Melville all'innocenza. Solo Hugo non esita a edificare al bene una cattedrale, ma a lui, ahimè, si perdona tutto. Parlare bene del bene è imperdonabile. Infatti non me lo perdono. Ma dovevo pagare di persona l'impagabile aiuto di parenti, amici, sconosciuti".
Ecco, siamo nel cuore di Nati due volte. Senza darlo tanto a vedere, Pontiggia riabilitava la possibilità di raccontare anche il bene. Ecco un modo interessante d'inaugurare il secolo nuovo, congedando quello passato. È possibile una letteratura non nichilista? Una letteratura non consolatoria che non abdichi alla consolazione della parola?
Non so se Pontiggia si fosse davvero poste queste domande, ma certo, mettendo al centro del suo libro la figura di un deambulante ritmicamente complesso che, pur perdendo spesso l'equilibrio e la posizione eretta, riesce a cavarsela, senza perdere la propria ironia, ha forse pensato a un modo diverso di porre il problema dell'esser uomini.
Un modo nudo e scoperto, che accetta le proprie debolezze e le trasforma in cemento esistenziale. E davvero sono tanti i segnali che indicano in Pontiggia un desiderio di abbandonarsi a possibilità di scrittura meno ragionate di quanto non avvenisse in passato. Eccolo, ad esempio, prendere sorprendentemente le distanze "dalla ragione di Cartesio" e rimuginare l'aggettivo "umano" nel suo "senso più misterioso e più forte"; senso che per lui rimanda "alla resa di fronte alla verità".
E non è detto che la resa di fronte alla verità debba per forza passare attraverso il linguaggio, come aveva creduto un tempo: "Ci sono tante cose che non passano per il linguaggio!", si sente esclamare in un passo del libro.
Ciò non significa che uno scrittore non possa essere definito come colui il quale "è perennemente sensibile alle disgrazie del lessico, anche se non ne viene coinvolto. E che non aspetta di esserlo per riflettere sulle differenze dei significati". Ha ragione, Pontiggia: tenere il linguaggio fluido e vicino all'esperienza dei sensi, non disdegnando neanche l'uso del buon senso, ha un risvolto pratico di grande importanza. E permette una disposizione democratica nei confronti di chi legge.
Con Nati due volte, Pontiggia stava compiendo un itinerario verso una semplificazione radicale - lui amava parlare di realismo integrale - che coinvolgeva senza impoverirli i processi immaginativi primari.
Adesso quell'itinerario s'è interrotto, l'uomo corpulento che aveva prima lavorato in banca e poi a lungo insegnato nelle scuole serali e che aveva inventato i corsi di scrittura pubblica, l'uomo che aveva stipato la casa dove viveva con la moglie e il figlio di ben cinquantamila volumi, non c'è più, e i libri scritti da lui sono lasciati al loro destino. Adesso è compito di noi lettori dargli un futuro. Leggendo questo "Meridiano", leggendo i singoli volumi, aspettando Il residence delle ombre cinesi, la raccolta di prose postume curata da Antonio Franchini.
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