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Descrizione


Tra la spedizione dei Mille (1860) e la morte di Giuseppe Verdi (1901) si snodano quarant'anni di storia italiana raccontati da testimoni grandi e piccoli, celebri o poco noti sulle pagine della stampa quotidiana e periodica. Si tratterà ora di uomini politici (Giuseppe Mazzini, Cesare Correnti, Carlo Cattaneo, Aurelio Saffi), o di storici (Pasquale Villani), filosofi (Antonio Labriola) o scrittori (Ippolito Nievo, Cletto Arrighi, Giuseppe Rovani, Antonio Ghislanzoni, Emilio Praga, Igino Ugo Tarchetti, Giovanni Faldella, Vittorio Imbriani, Carlo Dossi, Renato Fucini), prestati al giornalismo per periodi più o meno lunghi, ora dei primi giornalisti "professionisti" che contribuiscono in misura decisiva alla fondazione di quell'inedito mestiere: da Vittorio Bersezio a Leone Fortis, da Filippo Filippi a Yorick, da Carlo Romussi a Francesco Giarelli. Rifulge, a far data dalle cronache di Roma capitale, l'astro giornalistico di Edmondo De Amicis; si impone, a partire dal 1882, per la straordinaria qualità della scrittura, Gabriele d'Annunzio "romano", destinato per qualche anno a condividere un ruolo centrale con Matilde Serao e Edoardo Scarfoglio. Emergono, intanto, nuove figure professionali: il giornalista di opposizione, a vario titolo legato a un orizzonte politico di segno radicale, repubblicano o socialista; il direttore-proprietario di una testata giornalistica amministrata secondo criteri di moderna managerialità; il "redattore viaggiante".
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Dettagli

2007
18 settembre 2007
LXXII-1759 p., Rilegato
9788804562368

Voce della critica

Dedicare due ponderosi tomi dei prestigiosi "Meridiani" al giornalismo italiano (dal 1860 al 1939; altri due sono previsti per arrivare a oggi) è impresa che il curatore, Franco Contorbia, uno dei maggiori storici della cultura italiana del Novecento, spiega nelle eleganti introduzioni cominciando dalle ripetute discussioni sulla legittimità dell'autonomia dell'oggetto, contestata da Croce e di fatto messa in dubbio da molti altri, persino tra gli addetti ai lavori. Il fatto è che, specie muovendosi nelle pertinenze ottocentesche e primonovecentesche dell'oggetto, non si può non chiedersi continuamente se di giornalismo e giornalisti si tratti o se, invece, non siano in gioco varietà parallele, distinte ma non diverse, di letteratura e di scrittori, visto il taglio letterario di numerosi pezzi e il calibro intellettuale di quasi tutti gli autori (perlomeno gli antologizzati, di cui Andrea Aveto fornisce precise e chiare notizie biobibliografiche in appendice).
Se i grandi intellettuali paiono firmare il giornalismo dei primordi (e non solo), assai più che gli anonimi (o quasi) professionisti, è vero che i pezzi di un De Sanctis sulla rivolta di Torino contro il trasferimento della capitale a Firenze o i reportage di De Amicis dall'estero o gli stessi articoli di cronaca mondana di D'Annunzio da Roma sono tanto artisticamente pregevoli quanto giornalisticamente calcolati ed efficaci. D'altra parte, il metro dell'epoca accetta e attende dall'articolo di giornale una proprietà, un'inventiva, un'espressività che, a un certo punto, consentiranno persino le esibizioni impervie di espressionisti accaniti tipo Vittorio Imbriani o Giovanni Faldella.
La storia che Contorbia traccia è quella di un giornalismo che acquista abbastanza presto i modi suoi propri, ma li riceve in gran parte da penne illustri, maestri della scrittura che transitavano agevolmente dal libro al giornale e viceversa. Insomma, il primo mestiere e il secondo si scambiano da subito parti e attori. Certo, questo collateralismo di letteratura e giornalismo risulta accentuato in questi volumi dalla decisione di documentare anche pezzi da riviste, periodici, pubblicazioni letterarie e di cultura ("Nuova Antologia" o "Politecnico" o "La Voce"), mettendo a fianco degli articoli sui quotidiani sublimi pezzi di alta scuola, di taglio e sviluppo saggistico (uno per tutti il grande saggio di Boine sulla crisi degli ulivi in Liguria, edito sulla "Voce" del 1911) più che giornalistico.
Peraltro, sono proprio le grandi firme letterarie a denunciare presto gli eccessivi squilibri retorici verso l'alto del giornalismo italiano, troppo esibizionista persino per D'annunzio e ovviamente per De Amicis, cui si deve un primo, efficace profilo dei difetti stilistici dell'italiano giornalistico. L'autore di Cuore lamenta il tipico difetto nazionale di non fare "nessuna distinzione tra il linguaggio poetico e quello famigliare". "Non ci sono (…) tre cronisti su dieci che, annunziando un suicidio, si rassegnino a dire volgarmente. Il tale si uccise. No: dicono che pose fine ai suoi giorni. (…) Un giornale di Napoli ci dà la notizia che un carbonaio toccò dieci ferite di coltello (che …) lo trassero a morte indi a due ore. È un verso di tragedia. Lo scriver (…) precipitossi, scagliassi (…) invece di si precipitò, si scagliò ecc., come dice la povera gente, è cosa comunissima". De Amicis ironizza anche sulla fantasia neologica che produce "resistenzismo" e "guardingosità" o sull'esibizionismo di chi, per non ripetere "le signore", scrive "le belle Silfidi" o, in luogo di "marito geloso", il "furibondo Otello".
Stile e figura di un moderno giornalista si cominciano comunque a intravedere da quando si pubblicano i nuovi grandi quotidiani, il "Corriere della sera" (1876) o il "Messaggero" (1878). Proprio il fondatore del giornale milanese, Torelli- Viollier, traccia un profilo già novecentesco della professione di giornalista, cui accedono verso fine secolo anche donne scrittrici come Matilde Serao e Olga Ossani Febea. È uno dei primi corrispondenti (da New York), Dario Papa, a fissare una tipologia di giornalista all'americana, tutto notizie e professionalità, a lungo inviso all'intellighenzia italiana, legata, come ancora ai primi del Novecento scrive sulla "Voce" Giuseppe Prezzolini, all'immagine dell'intellettuale occasionalmente giornalista e scandalizzata del fatto che un buon reporter sia pagato meglio dell'autore di un articolo di fondo.
Il nuovo giornalista si afferma decisamente, anche se non definitivamente, con il nuovo secolo, con giornalisti-scrittori (più che il contrario) come Luigi Barzini e Ugo Ojetti. Barzini è la firma che apre l'introduzione di Contorbia al secondo tomo (1901-1939), perfetto esemplare di notista (le innumerevoli corrispondenze dall'estero), efficiente ma politicamente conformista e stabilmente filogovernativo. La prima guerra mondiale (e già prima la guerra di Libia) e poi il fascismo sollecitano e ottengono facilmente un giornalismo addomesticato, anche se non inconsapevole del peso della censura e del reclutamento ideologico, come mostra Luigi Albertini protestando riservatamente per le "consegne" da rispettare negli articoli dal fronte della Grande guerra. Se, durante il fascismo, testata e autore (ad esempio, "Omnibus" e Savinio) potevano essere ridotti al silenzio per (causa o pretesto) un irriverente articolo su Leopardi, le voci capaci di cantare fuori dal coro e opporsi non furono molte, e Contorbia non è tenero neppure con quelle che hanno finto solo a posteriori di averlo fatto. Una di queste è quella di Giovanni Ansaldo, che, attraversato tutto l'arco parlamentare nelle sue simpatie politiche, da sinistra a destra, si rivela, almeno nella riservatezza del diario, critico acuto delle disposizioni fasciste ai giornali in tema di cronaca nera, che con le sue miserie quotidiane infastidiva il trionfalismo e il nazionalismo mussoliniani.
Ma le antologie di Contorbia possono essere molto proficuamente lette o sfogliate anche come un documento in diretta della storia d'Italia. Grandi e piccoli eventi appaiono qui nella forma con cui furono rappresentati dalla stampa ai contemporanei. Ci sono, ovviamente, quasi tutti i grandi appuntamenti della storia, i suoi protagonisti (Cavour, Garibaldi, Quintino Sella, i papi), i momenti di crisi (le guerre, gli scioperi, il crollo della Borsa del '29). Ci sono i letterati (i necrologi di Nievo o di Manzoni), gli attori, i musicisti (memorabile il pezzo sui funerali di Rossini), le recensioni degli spettacoli (Wagner a Bologna), dei libri (La coscienza di Zeno). Ci sono i grandi servizi sui problemi e luoghi critici della nuova Italia (il brigantaggio, il meridione negli articoli di Pasquale Villari o di Luigi Settembrini) e i pezzi sulle piccole emersioni del quotidiano.
Queste ultime sono forse tra le pagine più curiose e interessanti dei volumi mondadoriani. Qui c'è l'Italia del giorno, minore e agitata, che segue le cronache giudiziarie, come l'inchiesta sulla morte di stato del falegname Romeo Frezzi o il processo a Landru. La minuta realtà traspare dietro la curiosa vicenda del professor Pietro Sbarbaro, retore capace di discorsi di tre ore e grafomane impenitente, sospeso dal ministro dell'Università per una lettera di protesta, o nella magnifica cronaca di una delle prime (1870) corse di "velocipedi". Sono brani di giornalismo puro che consentono di misurare meglio la distanza della prosa giornalistica di fine Ottocento o primo Novecento da quella di oggi, rispetto alla quale appare di tanto più elegante e accurata. Valga per tutti l'articolo sul processo Murri del 1903, discutibile fin che si vuole, ma di una chiarezza e proprietà linguistiche da manuale.
Peraltro, si può anche notare come cominci presto a farsi strada l'arte dei titoli, oggi molto e troppo praticata: un articolo di Federico De Roberto è titolato La vita è insonnia e uno del primo Mussolini Trincerocrazia (ma non si creda che la parola abbia valore negativo: "La trincerocrazia è l'aristocrazia di domani (…) i suoi quarti di nobiltà hanno un bel colore di sangue"). Il fascismo marchia il giornalismo del ventennio anche nello stile, oltre che nei terribili contenuti.
Opportunamente Contorbia conclude l'antologia con brani da meditare, come il Contra judeos di Piovene o una cronaca di guerra di Montanelli, con l'estasiato ritratto del Führer "ermetico, diafano, lontano". La precedono di poco gli articoli di Orio Vergani sulla visita di Hitler a Firenze nel 1938: l'episodio che suscitò le angosce della montaliana Primavera hitleriana vi è raccontato con fierezza gioiosa e orgoglio di alleato: quasi un monito per ricordare che la verità non è quasi mai quella che meglio sopravvive nel tempo.
  Vittorio Coletti

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