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Ho letto questo romanzo molto volentieri e l'ho apprezzato per lo stile narrativo, intelligente e perspicace dell'Autore e per la trama interessante, paradigma di molte esistenze passate e contemporanee non solo di persone di un certo ceto sociale ma anche di individui e famiglie medie. Una storia molto impegnativa che l'Autore descrive a profusione con acume psicologico (anche se non sempre da me del tutto condivisibile) e con attenzione mai superflua. Avrei volentieri evitato, magari, certe espressioni volgari e certi riferimenti al Divino molto inopportuni. Nel complesso, però, mi sembra un romanzo dal quale si possano ricavare ottimi spunti di riflessione personale e sociale.
Un noioso esercizio di scrittura. Continui flashback, ricordi, considerazioni completamente inutili. Pagine e pagine farcite di nulla. Sconsigliato
Anche se inizialmente non riusciva a prendermi, è stata una piacevole scoperta. Come una persecuzione possa portare la fine di un uomo. Consigliato
Recensioni
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"Ma insomma cos'è la vergogna?", si chiedeva Alessandro Piperno in uno dei suoi splendidi articoli che periodicamente si leggono nel "Corriere della Sera". E si rispondeva: "Un ardente desiderio di non esserci. Di non esistere o almeno di non essere più qui in questo preciso istante". Proprio quello che accade nell'incipit al protagonista di questo libro: "Era il 13 luglio del 1986 quando un imbarazzante desiderio di non essere mai venuto al mondo s'impossessò di Leo Pontecorvo". E in effetti nella discesa agli inferi che trasformerà un quarantottenne chirurgo di successo stimato professionista e amato padre di famiglia in un "povero scarafaggio", "vergogna"(come nel titolo di Coetzee) è una parola chiave. Forse la più importante delle parole tormentone ossessivamente disseminate a segnalare la portata simbolica della vicenda narrata.
Quella vergogna che accomunava il suo primogenito ("Quel sentimento dimostrava che il suo ragazzo era un tipo davvero sensibile"), la fidanzatina dell'altro figlio ("È proprio sulla vergogna che Camilla sta formando in modo così precoce la sua personalità") e anche l'avvocato amico d'infanzia ("Doveva essere una cosa così difficile, così terribile, vivere quella vergogna") è destinata infatti a diventare l'unico, totalizzante, tratto del suo carattere: "Ora Leo Pontecorvo è tutto il suo imbarazzo. Tutta la sua vergogna". E pensare che tra le caratteristiche di Leo (ma c'entra qualcosa con il Merumeci degli Indifferenti?) c'era proprio una notevole sia pur rattenuta e ben simulata vanità. La prima a essere ferita quando scoppia lo scandalo che fa di lui un presunto pedofilo: "Il dramma di quell'apparizione in tv" (la brutta foto mostrata durante il tg) "fu per lui anche una tragedia della vanità".
Se con altrettanta ossessività si segue lungo tutto il racconto la disposizione di queste parole simbolo, ci si rende conto che queste finiscono con il disegnare una serie di coppie oppositive in cui un elemento rappresenta, nella vita del protagonista, il prima; l'altro il dopo, rispetto alla data fatidica con cui si apre il romanzo. Così ad esempio il sarcasmo prima agito ("Uno spirito sarcastico che Leo incarnava a perfezione"), poi subìto ("Da un bel po' mi lascio trattare da te con sarcasmo, lascio che questa gente mi torturi") fa spazio al melodrammatico("Offrendo loro melodrammaticamente i polsi"): un atteggiamento che Leo considerava tipico di sua moglie (nei loro litigi "il tono era, come al solito, sarcastico e melodrammatico").
Lui, d'altronde, "amava interpretare la parte del rude senza Dio", sbandierando "parole per Rachel vuote di significato e pompose come laicismo, illuminismo, agnosticismo"; mentre lei ci teneva a festeggiare come si deve la festa del kippur, ovvero dell'Espiazione (come nel titolo di McEwan): una parola che più avanti suonerà profetica alle orecchie di Leo ("Perché un Dio deve esserci. L'ultimo infernale anno della sua vita è Dio"). Lei, d'altronde, era quella educata a pensare che "l'intero universo era disseminato di presagi nefasti"; lui "quello spirito cazzaro" che fino all'ultimo continua a illudersi che la sua tragedia sia soltanto un "sordido scherzo" (Lo scherzo, come nel titolo di Kundera).
Vergogna/vanità, sarcasmo/melodramma, laicismo/dio, tragedia/scherzo. Ma la coppia più classica quasi petrarchesca è quella che fa capo al titolo complessivo dell'affascinante progetto di Piperno, destinato a completarsi a marzo con l'uscita di un secondo volume: Il fuoco amico dei ricordi (Fuoco amico, come nel titolo di Yehoshua), ed è la coppia fuoco/neve.Il fuoco è il primo simbolo ad apparire nel racconto, mimetizzato nella frase del figlio Filippo che rompe il silenzio seguito alla notizia del tg: "Mamma, perché non spegniamo il fuoco?" (solo sessantacinque pagine più avanti "qualcuno ha trovato la forza di spegnere la tv e il fuoco sotto la moka annerita"). Nella scena decisiva quella in cui Leo e Camilla si trovano soli davanti al camino i due elementi convivono: "Il fuoco si stava spegnendo. La neve oltre la finestra non smetteva di scendere". Poi la neve diventerà il correlativo oggettivo degli "immacolati idilli familiari"; il fuoco che animava Camilla ("Fosse dipeso da lei avrebbe dato fuoco a tutto"), l'immagine dell'inferno in cui Leo precipita: della sua sofferenza e del suo sacrificio.
"Vergogna. Colpa. Legge. Castigo, ecc. Li si pensa sempre con la lettera maiuscola non capendo che essi fanno male solo quando invadono la tua vita con la minuscola", scrive ancora Piperno nello stesso articolo del "Corriere della Sera". In questo senso, Persecuzione può essere letto etimologicamente come la storia di un individualissimo olocausto. Come l'espiazione di un atavico senso di colpa legato alla propria condizione di privilegiato: "Quello della buona borghesia ebraica uscita indenne dalla persecuzione". Come il Processo che kafkianamente inchioda l'innocente alla sola colpa della propria vergogna, perché "non c'è storia personale che non possa essere altrettanto capziosamente manipolata". Non il "falò delle vanità" (come nel titolo di Tom Wolfe), ma il falò della verità.
Giuseppe Antonelli
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