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A lettura ultimata, il libro di Pirani mi sembra ancora piacevole, malgrado qualche lungaggine. Nonostante il titolo signorilmente minimalista, il contenuto mostra con tutta evidenza che "Meglio di così non poteva andare". Ho sicuramente esagerato nel definire Pirani un 'sensibile umanista', ma egli è certo un intelligente, colto e gentile uomo di mondo. E' straordinaria, fortunata e invidiabile la rete di amicizie, conoscenze e contatti che sin dalla prima giovinezza Pirani ha saputo stabilire con persone di alta qualità, merito e importanza. Pirani ha una parola di lode per tutti e, quando non può lodare, è molto discreto. L'unico che non si salva è Mario Alicata, poveraccio, di cui Pirani descrive con una efficace pennellata la bocca molliccia. Mi è tornato in mente il libro di ricordi di Karola Bloch, moglie del filosofo Ernst. Dovunque i coniugi Bloch andassero, incontravano persone eccezionali di cui diventavano subito amicissimi. Addirittura, durante un soggiorno negli USA, andati ad abitare in un alloggio nuovo e sconosciuto, ricevono la visita di una vicina di casa che è moglie di un grande scienziato, futuro premio Nobel per la fisica. Lo scrittore-cabarettista Fulvio Abbate in un recente video della sua simpatica Teledurruti ('una televisione monolocale') si chiedeva con una certa divertita tristezza: "Perché è così difficile avere l'amicizia dei migliori?" E aggiungeva qualcosa che potrei sottoscrivere anch'io: "Ho frequentato nella mia vita soprattutto persone terrificanti, mediocri e stupide... Come mai i migliori mi hanno sistematicamente evitato?". Bella domanda!
Sto leggendo questo libro con vero godimento. Mario Pirani appartiene alla famiglia di Repubblica ed è il suo migliore scrittore. Mentre gli altri giornalisti, da Eugenio Scalfari, il pater familias, a Francesco Merlo e Vittorio Zucconi, scrivono come liceali, con risultati spesso insopportabili (per es., le immagini rimbombanti e superbarocche sparate a raffica da Zucconi), la prosa di Pirani è sobria, robusta e sostanziosa. In questo libro di memorie Pirani mi sembra uno scrittore notevolissimo che riesce a intrecciare la propria biografia con le vicende storiche e a fondere i due piani del racconto in una unica narrazione ricca di particolari preziosi e di riflessioni interessanti. Non è, questo, un risultato facile da raggiungere. Rossana Rossanda e Pietro Ingrao, per es., nei loro recenti libri di ricordi, non lo hanno sfiorato nemmeno lontanamente. Essi, nonostante la loro formazione letteraria, si sono dimostrati in quelle operette piuttosto dirigenti politici (direi, anzi, funzionari di partito) che non intellettuali capaci di riflettere con severa sincerità su se stessi e sulla complessità della vita. Pirani è invece un sensibile umanista che, proprio perché sa cogliere ed esprimere delicati stati d'animo e sottili sfumature psicologiche e di atmosfere, riesce a valutare più profondamente anche il significato delle vicende storiche e sociali.
Recensioni
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La tentazione a cui è difficile resistere, discorrendo di questo libro, è quella di seguire semplicemente l'avvincente racconto che si dipana nelle sue oltre quattrocento pagine, ripercorrendo le tappe di una biografia fitta di nomi, luoghi, persone, aneddoti. Del resto, è Pirani stesso a definire giustamente il suo libro il romanzo di una generazione: la generazione che, nata nei primi anni del fascismo, passata per la guerra e gli entusiasmi della ricostruzione, è poi transitata nella storia possiamo ben dire oggi tormentata della Repubblica. A questa generazione, dice il titolo, "poteva andare peggio": e questo è certamente vero, anche se è doveroso aggiungere che, in un'intervista rilasciata a Ignazio Dessì poco dopo la pubblicazione del libro che citerò spesso perché ne costituisce un complemento importante (http://spettacoli.tiscali.it/articoli/libri/10/09/pirani-intervista-libro.html), l'autore precisa che il titolo è stato pensato così perché il libro si arresta agli anni ottanta, e dopo, invece, "sì, è andata peggio di quanto i più pessimisti tra di noi potevano pensare. Si possono analizzare le cause, ma resta il fatto che abbiamo una condizione incredibile: abbiamo perso posizioni in tutti i campi, economico, internazionale, politico e direi anche della decenza pubblica". Un'infanzia felice e dorata, trascorsa negli agi di una famiglia ebrea perfettamente integrata nell'Italia fascista e rivissuta soprattutto nel ricordo di spensierate vacanze che sembrano tratte dalle scene di Morte a Venezia di Luchino Visconti o dal Giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani, è troncata bruscamente dalle reggi razziali e dalle vicissitudini della famiglia Pirani Coen con l'internamento nell'interno del Lazio e poi in Maiella, in una situazione di stenti e di pericolo crescenti. L'antifascismo sempre più convinto che accompagna la maturazione intellettuale del giovane Mario, e che si nutre come quasi sempre è accaduto alla sua generazione di letture storiche e dell'insegnamento coraggioso di qualche professore anticonformista, sfocia presto in una convinta adesione al Pci: e alla militanza comunista, durata dal 1945 al 1961, sono dedicate pagine ricche anche di notizie storiche inedite, come in particolare quelle riguardanti la commissione di organizzazione del partito che descrivono molto felicemente itinerari ben noti di una generazione di intellettuali, e sono percorse da una vena di sottile autoironia, ma anche a me sembra di quasi impalpabile e non confessata nostalgia. C'è un certo sdoppiamento non del tutto risolto, nel libro, che risalta anche maggiormente leggendo la già citata intervista. È quasi come se fossero due persone diverse a raccontare una vita divisa in due fasi: la prima, la stagione vissuta nel Pci, ci dice Pirani riecheggiando il titolo della sua autobiografia, fu un momento di "illusioni ragionevoli che determinarono anche cose concrete", soprattutto per l'opera di "grande pedagogia politica e organizzazione democratica" che egli accredita al partito di Togliatti. Il racconto degli anni vissuti nel Pci come funzionario, costellato di episodi significativi e anche divertenti, denota nell'autore un legame che non si è rotto completamente: non a caso occupa più di metà del libro. E ricco di interrogativi, ai quali Pirani stesso offre senza mostrarsene del tutto convinto qualche risposta, rimane l'interludio di ben cinque anni in cui, dopo la tragedia ungherese del 1956 con cui fa coincidere la fine delle proprie illusioni, resta nel Pci : e vi resta, si badi, come membro dell'apparato e non come intellettuale di complemento. Chissà che non sia proprio quel lungo periodo di una transizione dai tempi "lenti e vischiosi" a rendere poi più drastica la rottura e a influire sul cambio di registro che si avverte nel racconto della seconda fase. Qui si avverte, dalla vita precedente, un distacco ormai completo, con una serie di giudizi, non tutti condivisibili, che colpiscono per la loro durezza retrospettiva: arrivando per esempio a parlare di "orgoglio luciferino di una confraternita chiamata a trasformare l'Italia e il mondo", e a considerare che "se il Pci avesse prevalso, l'Italia avrebbe conosciuto una sorte simile a quella delle 'democrazie popolari' dei Paesi dell'Est". Eppure, in fondo, l'idea di poter ricostruire l'Italia distrutta, "portando l'utopia nell'alveo di una visione razionale della storia" si radica in profondità in Pirani, e certamente influisce su di lui anche dopo il 1961, quando, introdotto da Giorgio Ruffolo a Enrico Mattei, ne conquista la fiducia e diventa un dirigente dell'Eni. È lui a tenere, per conto di Mattei, i rapporti con i capi della guerriglia algerina, aiutandoli a stendere gli accordi petroliferi sia con l'Italia sia con la stessa Francia: e le pagine sulla sua permanenza a Tunisi, da dove tesseva una fitta rete di relazioni che lo portò a contatto con uomini che hanno fatto la storia del Novecento, ma anche con un'infinità di personaggi d'ogni tipo, spesso tanto improbabili quanto affascinanti, restano tra le pagine più piacevolmente leggibili del libro. Ma più in generale, è la grande stagione dell'industria di stato e del suo sogno di modernizzazione dell'Italia che Pirani ci fa rivivere con efficacia: ed è di nuovo dall'intervista a Dessì che si può capire quanto a quella stagione sia rimasto attaccato: "Purtroppo dice nessuno ha più il coraggio, visto che è fallita l'Unione Sovietica, di riprendere in mano idee di programmazione dell'economia e della finanza, cadendo nel complesso di chi, avendo sbagliato prima, ha paura di fare qualsiasi cosa, perché teme di sbagliare di nuovo". A proposito dell'incidente aereo che costò la vita a Mattei, Pirani non esclude che si sia trattato di un attentato, ma scarta l'idea che sia riconducibile alla "sette sorelle" del petrolio, propendendo semmai per un'altra ipotesi, a dire la verità piuttosto azzardata: e cioè che nell'evenienza di una terza guerra mondiale tutt'altro che esclusa nei giorni della crisi dei missili a Cuba la Cia avesse interesse a eliminare un personaggio in grado di orientare le scelte dell'Italia verso una posizione neutralista. Morto Mattei, Pirani non intrattiene rapporti ugualmente buoni con Eugenio Cefis, che però utilizza a fondo le sue competenze prima che egli, nel 1968, lasci l'Eni. Praticamente comincia allora la carriera di Pirani giornalista, movimentata anche questa, passa infatti attraverso il ruolo di corrispondente da Bruxelles de "Il Giorno", la direzione del settimanale "Il Globo", la partecipazione alla fondazione de "La Repubblica", un'infelice esperienza di direzione dell'"Europeo" fino al "ritorno a casa" nel quotidiano di Eugenio Scalfari nel 1986. Il quale Scalfari, in una recensione pure molto positiva, ha notato che Pirani ha passato quarantasette anni, più di metà della vita, in questa professione, ma che a essa dedica tutto sommato poco spazio. L'osservazione trascura forse troppo le pagine che l'autore scrive sul suo lavoro di notista economico per la stampa comunista, ma non si può negare che sia fondata: speriamo che induca Pirani a raccontarci con eguale intensità e insieme leggerezza anche la sua "terza vita". Aldo Agosti
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