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Terracarne - Franco Arminio - copertina
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Terracarne - Franco Arminio - copertina
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Descrizione


"La paesologia è una via di mezzo tra l'etnologia e la poesia. Non è una scienza umana, è una scienza arresa, utile a restare inermi, immaturi. La paesologia non è altro che il passare del mio corpo nel paesaggio e il passare del paesaggio nel mio corpo. È una disciplina fondata sulla terra e sulla carne. È semplicemente la scrittura che viene dopo aver bagnato il corpo nella luce di un luogo." La paesologia è la scienza di Franco Arminio. Una scienza inafferrabile eppure concretissima, umorale ma a modo suo esatta. Una disciplina in cui si fondono poesia e geografia: la poesia di una scrittura limpida e visionaria, lavorata col puntiglio e la cura propri della grande letteratura; la geografia del nostro Sud. Arminio gira per i paesi della sua Irpinia, per quelli della Lucania e della Daunia (i paesi invisibili) e della cintura napoletana (i paesi giganti), sconfina in Molise, in Abruzzo, in Salento, si allontana fino alle Marche e al Trentino, e ovunque applica il suo metodo, mette in pratica il suo particolare modo di attraversare i territori e di raccontarli. Il suo sguardo non trascura nulla: le piazze, le strade, i bar, i cimiteri, i paesaggi più sublimi e gli scempi della modernità, lo sfinimento e la desolazione, i lampi e gli slanci. Ne viene fuori un referto preciso e accorato della situazione del Mezzogiorno d'Italia. Un referto che e questa è una delle singolarità del "metodo Arminio" - prevede annotazioni anche su chi la visita la fa: sull'autore stesso e il suo io errante.
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Dettagli

2011
353 p., Brossura
9788804613138

Valutazioni e recensioni

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Claudio
Recensioni: 5/5

A mio giudizio è il miglior libro di Arminio, ne ho letti degli altri ma questo lo considero quello con il quale è riuscito a dare il meglio di se. Da consigliare sopratutto a chi vive in paese e a chi vuole scoprire, con il linguaggio della poesia, dove stanno andando a finire i piccoli centri della nostra bellissima terra.

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Michele
Recensioni: 3/5

Non sto a dire i meriti della paesologia di per sé, affascinante anche se di sfugggente definizione (oddio, ancora, dopo vari libri?...). Stavolta il buon Arminio si guarda l'ombelico, dispiace, perché è un difetto in sé stesso: l'osservazione molto autocompiaciuta delle proprie ansie e depresisoni e panico, rovina tutto; "Vento forte" era molto più signorile. Le divagazioni pseudoesistenziali sono astruse, e le autocitazioni, scusatemi, davvero penose ("Questa frase mi è venuta..." non si regge!) COmunque, l'impressione finale è che si vuole vedere tutto il Sud con occhio necessariamente disforico, perché dire il contrario rovinerebbe tutto, con la conseguenza, però, che si può indurre a pensare il contrario di ciò che si voleva dire.

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Marco Ferraro
Recensioni: 3/5

Anche alla fine del libro non sono riuscito fino in fondo a capire la disciplina della "paesologia", ma sicuramente la lettura si è rivelata molto interessante, perché ha fornito uno sguardo diverso ed originale sui luoghi visitati e descritti. Credo che da profani il miglior approccio sia quello di considerarlo una "guida" (io viaggio sempre con la "guida rossa" del T.C.I., in cui sono segnalate tutte, ma proprio tutte, le cose interessanti da vedere), ma il turista arriva, fa un rapido giro e poi riparte, senza entrare e senza capire a fondo dove si trova; ecco Arminio cerca di andare all'essenza dei paesi che poi molto spesso si trova fuori dai giri turistici. Anche a me sarebbe piaciuto fare un lavoro del genere, essere un po' più ricercatore ed un po' meno turista; ma allora forse il risultato sarebbe davvero un continuo "mal di pancia" per lo scempio dilagante! Non ho lo spirito del missionario e non so se ne varrebbe la pena. Comunque complimenti ad Arminio per il suo lavoro di osservatore e testimone acuto e profondo.

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Voce della critica

  Quando uscì da Sironi Viaggio nel cratere mi fulminò letteralmente, mi parve che Franco Arminio avesse miracolosamente trovato come pochi scrittori della sua generazione (1960) un suo mondo e una lingua, quello che rende raro un autore, e caro ai suoi lettori, pochi o tanti che siano, e cioè una cifra inconfondibile, una voce autentica, non comune nel mondo editoriale. Nei borghi spopolati e terremotati, quelli che ci ha fatto conoscere nei suoi libri, Arminio ha trovato a un certo punto il suo mondo e la sua koinè. In Viaggio nel cratere, quasi a circoscrivere la sua umanità di riferimento, citava Carlo Levi che, confinato a Grassano, aveva descritto questi posti in modo magistrale: "Tutti i giovani di qualche valore, e quelli appena capaci di fare la propria strada, lasciano il paese. I più avventurati vanno in America, come i cafoni; gli altri a Napoli o a Roma, e in paese non tornano più. In paese ci restano invece gli scarti, coloro che non sanno fare nulla, i difettosi nel corpo, gli inetti, gli oziosi: la noia e l'avidità li rendono malvagi". Arminio è ripartito da qui con la sua letteratura ibrida e lirica, ma anche fisica, che stanca della fiction è tornata a raccontare in modo originalissimo e antiromanzesco il vero, e addirittura a straziarlo cinicamente, a decifrarne delle comicità surreali, a cercare nell'infinitamente piccolo un conio italiano, o addirittura quello più complesso di una parte del mondo occidentale, cosa che poteva fare solo un poeta. Lui calibra la scrittura da un parlato che rielabora molte letture colte, ingorga nozioni sapienziali, è più un Bichsel, un Handke, o il Thomas Bernard delle prose brevi, specie quello di L'imitatore di voci, assolutamente antiretorico, a volte fa venire in mente Walser, e, pur raccontando un Sud nascosto e minore, ha quasi una postura da autore straniero, internazionale, pochissimo autoctono. Forse di certi intellettuali italiani del Sud (Rocco Scotellaro, Danilo Dolci) conserva la tellurica verve civile, e una lingua incontaminata e un po' arcaica e sacrale, la quale lavora da abile artigiano scansando tutte le scorie o le tentazioni di quella tecnologica e mediatica, avvilita al ribasso in molte scritture plastificate e nostre contemporanee, deperite di senso, con una sua originale forza di ideologia e di pensiero. Una lingua fieramente eccentrica, a volte enunciativa, aforistica, volutamente civile. In quest'ultimo libro, che un po' chiude il cerchio delle sue peregrinazioni paesologiche, anche se allarga a un Sud affollato e disperso, ritorna questa lingua prensile di uno degli ultimi poeti comunitari del nostro paese, enunciativa e percussiva, così come l'autore ci aveva abituato nei precedenti e bellissimi Vento forte da Lecedonia a Candela, Nevica ma non ne ho le prove (entrambi Laterza "Contromano"), Cartoline dai morti (Nottetempo) e Oratorio bizantino (Ediesse). Le geografie si allargano, si chiude un po' la clausola ipocondriaca, il paesologo esce per la prima volta dal seminato dei suoi luoghi persi, dalla sua geografia etnico-claustrofobica, ha una postura meno psicotica. Va nelle terre limitrofe, la Lucania, la Puglia e il Molise, esplora parte delle Calabrie, della Campania allarga, con degli sconfinamenti marchigiani e altoatesini che fungono da controcanto ideale. Anche se è sempre una scrittura corporale, come denuncia in un passo: "Terra e carne quasi si confondono e il corpo si fa paesaggio e il paesaggio prende corpo". Si reca nei posti più noti del Mezzogiorno, indaga, incontra, riferisce, le sue geografie sono sempre irrequiete nei passi liricissimi, ma non è mai un racconto di viaggio neutrale il suo, quello di un Piovene meridionale agiografico, al contrario risulta politico e tellurico. Le terre visitate, che il paesologo-raccontatore ausculta con lo stetoscopio della scrittura, sono infestate dagli "estremisti della moderazione", cioè "i paesanologi, quelli che vogliono cambiare la vita dei paesi senza cambiare i vecchi padroni che li hanno rovinati". Cita Levi e Salvemini, va nel paese di Rocco Scotellaro in un viaggio anche dentro la cultura meridionalista più profonda. Si indigna contro la piccola borghesia del Sud, l'antico tarlo, mentre invece ama i poveri e semplici, i perdenti assoluti della vita: "Quelli che bevono alle nove del mattino sono i grandi eroi dello sconforto", scrive, cita i nomi dei politici-padroni della sua terra, De Mita in primis, padre-padrone della politica locale. "Il paese in cui vivi è una prigione da cui puoi evadere quando vuoi. Va bene qualsiasi posto, questa è la scoperta", scrive. Ora, immagino, proprio per questa apertura, che Arminio sarà costretto a emigrare le sue storie altrove, perché si ha l'impressione che non possa più succhiare lacrime e sangue dalla sua terra carne, dalla sua terra madre, quella fatta di una lingua antica, con il rischio di reiterare, rifarsi il verso. Altri mondi, altre mappature lo attendono. Magari globali. Come ha fatto il suo mentore Gianni Celati, esule letterariamente e con non minore penetrazione in altri luoghi, dalle Pianure padane all'Africa, alla ricerca continua di una forma il più possibile vicina a quella dell'esperienza della vita di tutto il mondo, che in fin dei conti è sempre paese, "un ring dove spesso la contesa è tra chi ha gettato la spugna e chi non si è mai messo i guantoni". Angelo Ferracuti

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Conosci l'autore

Franco Arminio

1960, Bisaccia

Franco Arminio è nato e vive a Bisaccia, centro dell'Irpinia orientale in provincia di Avellino. Collabora con diverse testate locali e nazionali come "il manifesto", "Il Mattino" di Napoli, "Ottopagine", "Corriere del Mezzogiorno", ed è animatore del blog "Comunità Provvisoria". Paesologo, Arminio racconta i piccoli paesi d'Italia, e ha realizzato anche vari documentari. Nel 2009, con Vento forte tra Lacedonia e Candela. Esercizi di paesologia (Laterza) ha vinto il Premio Stephen Dedalus per la sezione "Altre scritture". Nel luglio 2011, con Cartoline dai morti (Nottetempo) ha vinto per la seconda volta il Premio Stephen Dedalus per la sezione "Altre scritture".Tra i suoi libri: Viaggio nel cratere (Sironi, 2003), Circo dell'Ipocondria (Le Lettere, 2006), Vento forte...

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