Si comincia con una panne. Un’auto ferma per strada, il tempo che passa, il tentativo di capire come risolvere il problema. Poi, nel corso delle 220 pagine dell’esordio di Paolo Marino, (menzione speciale al Premio Calvino 2012), è come se il guasto originario ‒ inteso come pausa nel flusso, stasi potenzialmente minacciosa, rarefazione e al contempo condensazione dell’esperienza ‒ venisse articolato non tanto nello spazio (detenere la narrazione in un unico luogo è l’azzardo nonché uno dei grandi pregi di questo libro) quanto nel tempo. Perché alla morte dei genitori – nessuna ragione, nessuna spiegazione, soltanto un improvviso assentarsi di padre e madre alla vita – il tredicenne Edo si ritrova davanti a un deserto di minuti che si accumulano in forma di giorni e di settimane fino a generare una temporalità sospesa, autonoma e autotrofa, un tempo paragonabile a una soglia talmente dilatata da somigliare più che a un’invalicabile linea d’ombra a un vero e proprio territorio, arbitrario, isterico, dunque perfettamente abitabile.
A nulla varranno i tentativi di un manipolo di zii di persuadere Edo dell’illogicità del suo comportamento quando deciderà di non lasciare la casa in cui ha vissuto con i suoi genitori. Nonostante le premure in cui si ammucchiano “ansia e buon senso”, lo sforzo centrifugo parentale non riesce a prevalere sull’ostinazione centripeta di Edo. A partire da un “Preferirei di no” tanto lapidario quanto letterario (che inscrive il protagonista del romanzo in una stirpe di personaggi dimissionari lontani anni luce da ciò che tradizionalmente consideriamo essere una volontà), Edo comincia un percorso immobile, un protratto andirivieni attraverso lo spazio domestico. Con lui, in una relazione paragonabile a quella tra le api e la regina al sicuro nell’alveare, una serie di figure che fanno la spola tra la casa e il mondo esterno recando nutrimento e informazioni: il coetaneo Enea, le enigmatiche gemelline Rovati, un rappresentante di aspirapolveri così preoccupato dai microbi che sparpagliati per casa di notte rosicchiano le gambe del letto da soffiare il fumo delle sigarette contro la ceramica di lavandino, bidet, water e vasca da bagno in modo da affumicare il pericolo entomologico.
Per quanto libero di andare e tornare, ognuno di questi personaggi sperimenta il fascino dell’autoreclusione. Perché nella casa di Edo ogni esperienza possiede qualcosa di amniotico, un sapore originario, tutto esiste nella forma del prisma, le cose e i corpi si scompongono nelle loro parti più minute, il tempo si sfalda, la realtà si fonda – e dunque sprofonda – sul fading (“Una ciocca di capelli planò su una spalla, il dito indice alzato verso l’alto si staccò dalla mano e atterrò sul pavimento, poi fu la volta del naso che rimbalzò sotto un mobile e degli occhi che rotolarono verso il corridoio”).
Contemplando da solo il cestello della lavatrice (“Osservavo i vestiti rimescolati con regolarità e ogni tre o quattro giri facevo un cenno di saluto alla camicetta di mia madre, ai pantaloni del papà, a una mia maglietta bianca. Eravamo tornati assieme, avvinghiati, immersi in un liquido che riempiva il respiro e offuscava lo sguardo”) oppure al riparo con gli altri sotto un lenzuolo sospeso tra poltrone e divano, la luce di una candela a illuminare da sotto la stoffa, Edo cerca soltanto un bozzolo che gli consenta di permanere al centro della casa, incluso e separato, presente e assente, detenuto in un limbo interminabile in grado di consumare al proprio interno vite ed epoche intere. Senza accedere a una consapevolezza profonda del proprio comportamento, al contrario permanendo in una condizione tra il presentimento e il torpore, Edo persegue un obiettivo: svuotare lo spazio domestico, avvolgere ciò che resta nel cellophane, fasciare il proprio corpo nella garza (facendosi crisalide umana), cancellare la linea nera che distingue la figura dallo sfondo così compiendo il passaggio definitivo verso l’indistinto e la laconicità (“Si capisce a un certo punto che non c’è più bisogno delle parole, che sono diventate superflue. Servono solo per distrarsi, come fanno le scimmie allo zoo quando si dondolano a una fune appesa al soffitto”).
In diversi romanzi pubblicati in Italia negli ultimi tempi, buona parte dei quali passati per il Premio Calvino (cui va dunque ancora una volta riconosciuta una funzione critica determinante nell’intercettare le metamorfosi delle immaginazioni letterarie contemporanee), sembra di riconoscere un impulso costante verso ciò che, seppure in un contesto diverso da quello romanzesco, Elvio Fachinelli chiamava claustrofilia. Non il timore ma il desiderio dello spazio chiuso, della contenzione, del legame coatto; un bisogno di autosequestro che si fa condizione necessaria e sufficiente per generare una narrazione.
Dal “tutto dentro” stilistico di Francesco Maino in Cartongesso (un flusso grumoso di lingua che esplode nella misura in cui deriva da una coercizione) al picaro protagonista di Mia moglie e io di Alessandro Garigliano, che se anche tenta lo spazio esterno in cerca di un lavoro torna sistematicamente a un hortus domestico in cui studia nel concreto le forme della morte, dal protagonista di Sparire di Fabio Viola che si chiude in un armadio alla festa-prigione di Il diciottesimo compleanno di Riccardo Romagnoli, una specie di cratere dionisiaco che inghiotte il tempo, ancora passando per la cantina di Io e te di Niccolò Ammaniti e procedendo a ritroso fino a quello che per certi versi è il progenitore di questo impulso, vale a dire il Pietro Paladini protagonista di Caos calmo di Sandro Veronesi, rinchiudersi, fermarsi, restare, imbozzolarsi, preferire di no, escludersi verso l’interno smette di essere un infortunio lungo un cammino tradizionale per lasciarsi percepire come una vera e propria forma di vita. Qualcosa che pare collocarsi tra la resa incondizionata davanti a un compito irrisolvibile e quella che in medicina viene chiamata “posizione antalgica”, la postura che tendiamo ad assumere per contenere un dolore fisico. Perché ciò che c’è – sembra essere la percezione da cui hanno origine queste storie – è tanto, ciò che accade è troppo, e nel momento in cui è andata perduta la facoltà di varcare le soglie è preferibile abbandonarsi a una lunga indeterminata incubazione (un vuoto perfettamente abitabile) che poco alla volta, strategicamente, come Edo nel romanzo di Paolo Marino, sapremo persino arredare. E dunque si vive in una panne senza soluzione (il versante perenne di quella stessa contingenza che da qualche anno chiamiamo crisi), scavandosi un’ansa nel tempo e autoesiliandosi dal flusso, aspettando che passi, sapendo che non passerà e che i contorni delle cose rimarranno sfuocati. Diventando, il più serenamente possibile, claustrofilici.
Giorgio Vasta