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Letteratura italiana. Storia e geografia. Vol. 3: L'Età contemporanea. - copertina
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Letteratura italiana. Storia e geografia. Vol. 3: L'Età contemporanea. - copertina

Dettagli

1989
1 gennaio 1997
XXI-1355 p., ill.
9788806114961

Voce della critica


recensione di Luperini, R., L'Indice 1990, n. 3

Qualsiasi operazione di storiografia letteraria gioca le sue carte migliori sul terreno del rapporto fra fenomeni sociali e culturali e fenomeni letterari, fra storia e testo. Asor Rosa, negli ultimi tre volumi della einaudiana "Letteratura italiana", ha aggiunto, riprendendo una felice indicazione di Dionisotti, un terzo elemento, la geografia. La materia, dunque, anche in questo ultimo volume da poco uscito, è trattata, prevalentemente, città per città e regione per regione.
Su questa scelta si potrebbe, in linea di principio, concordare. Dovrebbero essere rispettate, però, due condizioni: 1) il punto di arrivo della ricerca dovrà pur essere il testo, analizzato ovviamente nella sua genesi storica e magari geografica ma anche nelle conseguenze che ne derivano sulla sua struttura specifica, cioè tecnico-formale; 2) nell'età contemporanea, la provenienza regionale degli autori spesso ha scarsa rilevanza, mentre, d'altra parte, il processo di internazionalizzazione della cultura e della letteratura è arrivato a tal punto che il quadro geografico non può essere ristretto all'ambito nazionale. Nell'"Età contemporanea" entrambe queste condizioni vengono, di fatto, eluse. Con una differenza: della prima Asor Rosa appare consapevole, tanto è vero che più volte insiste sulla centralità del testo letterario nella sua "Letteratura italiana", ma evidentemente non è riuscito a realizzarla nell'articolazione dell'opera; della seconda, no. D'altra parte, la contraddizione fra intenti programmatici e risultato conclusivo non è certo casuale: l'approccio geografico rigidamente perseguito (come nel caso di questa "L'età contemporanea") di per sé induce a porre l'attenzione sull'organizzazione culturale e sulle biografie individuali piuttosto che sullo specifico letterario.
Inoltre, in alcuni casi, si ha l'impressione di una carenza nella coordinazione complessiva dell'opera, di qualcosa di casuale in certe presenze o in certe assenze, in alcune sottolineature o in diversi vuoti immotivati. Così, a lettura completata, non ci si sottrae alla sensazione che l'approccio geografico, ma anche "pluralistico" ''pluridimensionale'' e "pluridisciplinare'', della "Letteratura italiana" non approdi a una maggiore conoscenza né della genesi storica e geografica né, tanto meno, della struttura formale di opere fondamentali della nostra epoca, come, che so?, "La bufera e altro" o "Satura" di Montale, o "Senilità" di Svevo, o "Con gli occhi chiusi" di Tozzi, o, per venire ad anni più recenti e problematici, come i romanzi di Volponi e di Malerba.
Prima di passare a tale verifica, sarà il caso tuttavia di considerare brevemente l'opera nel suo complesso o almeno la sua parte (corrispondente, d'altronde, ai tre quarti del totale) dedicata alla trattazione geografica. Essa è preceduta da un saggio, in cui il direttore della "Letteratura italiana" scrive alcune pagine, in linea di massima persuasive, sul rapporto fra centro nazionale (Milano, Firenze, Roma) e periferia nella letteratura postunitaria: effettivamente tale angolatura può servire a illuminare adeguatamente, e da una prospettiva parzialmente inedita, la doppia ottica (regionale e metropolitana) di Verga o di Pirandello (due autori a cui Asor Rosa dedica alcune osservazioni assai ben calibrate) o l'itinerario montaliano dalla Liguria a Firenze e a Milano. Passando, però, dal saggio di Asor Rosa agli altri contributi del volume, ci si accorge ben presto che fra il dire del direttore e il fare dei suoi collaboratori c'è di mezzo il mare: quasi sempre, infatti, gli autori dei vari saggi che compongono "L'età contemporanea" si sono limitati a fare delle microstorie letterarie regionali senza analizzare il rapporto di interscambio centro-periferia. Inoltre, il problema della internazionalizzazione della letteratura, su cui già ho richiamato l'attenzione, non viene risolto e, anzi, neppure affrontato. Qui, probabilmente, come suol dirsi, l'errore è nel manico. Non per nulla la letteratura comparata è la grande assente da questa "Letteratura italiana". Nel saggio introduttivo, Asor Rosa non considera mai il caso che il "centro" sia rappresentato non da Roma o Firenze o Milano, ma, per esempio, da Parigi, come è per il primo Ungaretti o per il Calvino della maturità. E, in altri casi, ovviamente, può essere Londra, o l'America. Ciò determina, nelle trattazioni specifiche, varie incongruenze. Per fare qualche esempio: siamo proprio certi che Sanguineti abbia maggiori relazioni con la letteratura ligure (nel cui ambito è trattato) che con l'avanguardia europea? E quale senso può avere parlare del Gruppo 63 dei "Novissimi" e di "Quindici" all'interno della letteratura emiliana e romagnola (come fanno G. M. Anselmi e A. Bertoni) solo perché deriverebbero dal "Verri" anceschiano (ecco un davvero bell'esempio di continuismo storicistico applicato alla geografia!)? E, di nuovo, si è proprio convinti che "Il nome della rosa" e "Il pendolo di Foucault" abbiano più a che fare con Bologna (sono ancora Anselmi e Bertoni a sostenerlo, con la motivazione - invero bizzarra - che Eco insegna a quell'università) che con Harvard, Yale o Toronto?
A volte, inoltre, la trattazione geografica appare inadeguata rispetto alle stesse premesse del direttore. Il quale, per esempio, sempre nel saggio introduttivo, collega Saba "alle fonti stesse del più puro canto italiano" e allo "spirito della migliore nostra tradizione nazionale preunitaria" (che è tesi forse frettolosa e comunque molto discutibile; piuttosto che dalle "fonti stesse del più puro canto italiano" Saba sembra derivare - e su ciò, fra l'altro, c'è una insospettabile convergenza degli studiosi sabiani - da Zendrini, Graf, Zanella, Betteloni e soprattutto dai libretti d'Opera ottocenteschi: dalle scorie della tradizione letteraria, si direbbe, più che dalle sue acque più pure) e Montale alla nascita di un "nuovo sublime" italiano e, nella sostanza, di un nuovo petrarchismo (che è, anche questa, tesi parziale o unilaterale - Montale è anche un maestro dell'antisublime - e che comunque ignora "Satura" e la produzione successiva). Ma, se così fosse, se cioè la tesi di Asor Rosa fosse giusta, questi sarebbero appunto due casi in cui l'approccio regionale andrebbe evitato.
Che senso può avere, infatti, trattare un Saba "classico" e tutto dentro la tradizione nazionale nella prospettiva, che altrimenti sarebbe invece comprensibile, della triestinità e Montale "sublime" e petrarchesco sotto la rubrica angusta e penitenziale della tradizione ligure?
Non per nulla Mauri, che ha accettato il compito di inserire Montale all'interno del capitolo dedicato alla Liguria, si contorce come su un letto di Procuste. È troppo smaliziato e intelligente per non sapere che "con la tradizione letteraria ligure [Montale] mantenne pochi rapporti" e di continuo fa le mostre di scusarsi per un'angolatura che pesantemente riduce l'ottica del suo discorso. Di fatto il lettore che volesse sapere qualcosa di specifico su opere come la "Bufera" o "Satura" - che ben poco hanno a che fare con la Liguria - non lo troverà certo qui.
Il fatto è che, nell'"Età contemporanea", la trattazione geografica appare in diversi casi una gabbia troppo stretta o una cappa di piombo che rende egualmente grigi gli autori di una stessa regione. Funziona talora per i siciliani, per i triestini, o per certi veneti (come Zanzotto); molto meno per quegli autori che hanno vissuto in città diverse e stabilito rapporti con vari centri culturali, in Italia e all'estero. Succede così che gli scrittori che hanno una storia letteraria tutta regionale finiscono spesso premiati; gli altri, invece, penalizzati. A Mastronardi - tutto lombardo - sono dedicate ben due pagine, ma i tre più importanti narratori (con Calvino) dell'ultimo trentennio - Pizzuto, Malerba, Volponi - sono appena rammentati. Per quanto riguarda Volponi, si parla addirittura solo del "Memoriale", e unicamente perché, avendo il romanzo la ventura di descrivere il paesaggio canavesano e conservando le tracce del periodo olivettiano, a Ivrea, del suo autore, può rientrare nel capitolo dedicato da Zaccaria al Piemonte e alla Lombardia. Il che rinvia - mi sembra - a un criterio di scelta un po' casuale e certo estrinseco. Tanto più che, non essendo prevista una trattazione specifica per la letteratura marchigiana, neppure una menzione viene fatta del capolavoro di Volponi, "Corporale". E di "un Malerba, nato a Berceto di Parma nel '27" non viene ricordata neppure un'opera, ma fornita solo siffatta indicazione anagrafica (ancorché sicuramente "geografica").
Ma torniamo ad alcuni degli interrogativi iniziali. Il professore, lo studente, il semplice curioso che legga "L'età contemporanea" cosa sa, alla fine, di opere fondamentali del nostro Novecento come "La bufera e altro" o "Satura" di Montale o di "Con gli occhi chiusi" di Tozzi? O di "Senilità" di Svevo? (Quanto a Malerba e a Volponi, abbiamo già visto che fine hanno fatto). Anche mettendo da parte il metodo geografico e applicando quello stratigrafico suggerito da Asor Rosa (e cioè operando la sovrapposizione dei vari contributi non solo di questo volume ma anche dei precedenti della "Letteratura italiana"), credo di poter rispondere con una certa sicurezza: molto poco o, addirittura, niente.
Stando alla struttura dell'"Età contemporanea", di Montale fiorentino avrebbe dovuto occuparsi Luti e di Montale milanese Portinari. Ma Luti si limita a elencare gli elementi fondamentali della biografia montaliana senza neppure sfiorare l'opera (a ciò lo induce d'altronde, come ho già osservato l'impostazione "geografica") e Portinari (il quale, dovendo trattare l'intera letteratura milanese, ritiene evidentemente di avere ben altre gatte da pelare) accenna appena a Montale come maestro del correlativo oggettivo e potenziale capostipite della linea lombarda. Della "Bufera" e di "Satura" nemmeno l'ombra. Si è costretti, allora, a sfogliare gli altri volumi. Sul III, t. 1, uscito nel 1984, un ottimo saggio di Battistini e Raimondi ci informa della poetica montaliana (della poetica, non dell'opera) all'altezza degli "Ossi" e delle "Occasioni", arrestandosi proprio alle soglie del terzo libro (e comunque giustamente facendo riferimento a una poetica dell'antisublime negli Ossi e al 'sermo communis' del discorso montaliano: che è ipotesi assai diversa da quella asorrosiana di cui ho parlato sopra). Nello stesso volume Martelli traccia un profilo, di necessità concentrato, delle forme poetiche dal Cinquecento ai nostri giorni, occupandosi di nuovo solo degli "Ossi" e delle "Occasioni" (la "Bufera" è solo rammentata e a "Satura" è dedicato un unico rigo). Infine nel vol. VI (1986), in un lungo saggio di Bologna dedicato a "tradizione testuale e fortuna dei classici", l'attenzione è ancora limitata ai primi due libri montaliani (di nuovo la "Bufera" è appena menzionata, mentre di "Satura" non viene fatta neppure parola). Tutto qui. Chi non si accontentasse delle indicazioni di Mauri (di necessità, scarse e generiche) e volesse conoscere anche solo la differenza di poetica o di risultati tecnico-formali che divide il "terzo" Montale dal "quarto" (e su cui, fra l'altro, paradossalmente, una notevole influenza ha avuto proprio il passaggio dell'autore da Firenze a Milano) o anche soltanto essere informato sui temi e sulle soluzioni linguistiche o metriche dei due libri montaliani, non troverà alcuna risposta nelle oltre 10.000 pagine della "Letteratura italiana" e sarà costretto a ricorrere a un qualsiasi manuale scolastico.
Altrettanto deludente la verifica su Tozzi. Come spazio, gliene è concesso meno della metà di quello dedicato a Mastronardi o a Silone: meno di una pagina. "Con gli occhi chiusi" è solo un titolo inserito in un elenco di opere. Infine - se volessi entrare nel merito - la trattazione comincia con queste parole: "In Tozzi sopravvive ancora la struttura del romanzo naturalista", le quali danno per scontata una tesi che contraddice clamorosamente (ma, si direbbe, quasi inconsapevolmente da parte di chi la espone) tutto ciò che la critica migliore, da Debenedetti a Baldacci, ha sostenuto circa l'autore di "Con gli occhi chiusi".
Probabilmente, a questo punto, non vale neppure la pena di aggiungere che egualmente frustrato sarà chi cerchi, in "L'età contemporanea", qualcosa su "Senilità" (che Ara e Magris si limitano a ricordare un paio di volte, 'en passant') o sulla differenza di struttura formale fra quest'opera e "La coscienza di Zeno".
Può darsi che il metodo geografico di esposizione città per città e regione per regione trovi possibilità d'impiego più ricche e fruttifere per i primi secoli della letteratura italiana. Non sta a me verificarlo. Certo, per "L'età contemporanea", il risultato è assai poco incoraggiante. Si potrebbe dire che, in quest'opera, c'è l'intelaiatura geografica e storica, la interconnessione dei fenomeni letterari (la storia delle istituzioni culturali delle città e delle regioni); quello che manca è l'interconnesso, cioè la specifica materialità del concreto testo poetico o narrativo, la cui ribadita centralità resta sostanzialmente confinata nei programmi. Per una storia letteraria che pone a proprio fondamento il ripudio del "criterio etico-politico" per sostituirlo con uno più scientifico e meno ideologico in quanto ispirato al metodo "linguistico-formale", si tratta di un'incongruenza non da poco.
Inoltre, troppe altre scelte appaiono, in questa luce, non meno casuali e immotivate. A partire da quella del giudizio di valore. Quando Asor Rosa dispensa a piene mani aggettivi come "grande" (per Campana), "grandissimo" (per Tessa), "la più bella" (per la prosa saggistica di Calvino), "la più alta" (per la ricerca di Gadda), è proprio sicuro di ispirarsi al metodo "linguistico-formale" ? Oppure continua a operare in lui - contraddittoriamente ma inevitabilmente - un sistema di valori che rinviano a criteri di gusto, di ordine e di gerarchia e che dunque sono schiettamente ideologici?
Nel saggio introduttivo, Asor Rosa aggiunge la sua pietra a quella dei lapidatori dell'ideologia (la stragrande maggioranza degli scriventi, ormai): l'intento che avrebbe perseguito "è l'accrescimento del risultato conoscitivo, non il rafforzamento eventuale del modello ideologico". Forse sarebbe il momento di smettere di accodarsi all'esercito dei liquidatori dell'ideologia e di cominciare ad ammettere che ogni nostro atto cognitivo e ogni nostra valorizzazione del reale non possono che essere, sempre, ideologici. Continuare ad attribuire agli altri il marchio dell'ideologia e riservare per sé il crisma infallibile della scienza non è il modo migliore per conservare i modelli monistici che pure a parole si vorrebbero distrutti?


recensione di Brioschi, F., L'Indice 1990, n. 3

A otto anni di distanza dal varo, la "Letteratura italiana" Einaudi diretta da Alberto Asor Rosa può dunque dirsi ormai giunta felicemente a destinazione (mancano solo, a completamento dell'opera, gli indici). Nove volumi in undici tomi, per un totale di oltre diecimila pagine; un'impresa di grande respiro, che ha impegnato una vasta comunità di studiosi, circa un centinaio: il fatto stesso che sia stata realizzata è un ovvio titolo di merito per l'editore e il curatore. Né si tratta, evidentemente, di un merito puramente quantitativo. Certo qualcuno si preoccuperà pure di rilevare le disuguaglianze, segnalare squilibri di trattazione, o lamentare veri e propri vuoti: essendo questi inconvenienti inevitabili per opere di tal mole, la cosa fa quasi parte delle regole del gioco, e anche noi avanzeremo qualche osservazione al riguardo. Ma è intanto fuori questione che dobbiamo a questa "Letteratura italiana" un contributo importante ai nostri studi, dalla cui consultazione non potremo prescindere negli anni a venire.
Non parlerò qui del valore dei singoli saggi e interventi, che resta beninteso il primo elemento di giudizio: il fatto è che qualsiasi indicazione specifica non potrebbe che riflettere i troppi limiti delle mie competenze, e quindi avrebbe ben scarso interesse. Vorrei piuttosto proporre qualche commento sull'impianto generale dell'opera. Anche se un breve resoconto risulterà necessariamente schematico rispetto alla complessità del progetto, è dopotutto proprio per la sua impostazione che la "Letteratura italiana" rivendica esplicitamente i maggiori titoli di originalità.
A distanza degli otto anni trascorsi, possiamo oggi evitare di riprendere la discussione nei termini, volutamente polemici, che erano invalsi all'atto della prima presentazione (qualcuno ricorderà ancora le dichiarazioni programmatiche sul superamento del modello desanctisiano, accompagnate dal contrapposto richiamo all'esempio del Tiraboschi, o altre parole d'ordine di tal genere). In buona sostanza, mi pare, potremmo limitarci a dire che la nozione di storia letteraria dischiude di per sé due dimensioni, quella della successione cronologica tra un prima e un poi da una parte, e dall'altra quella del rapporto tra fatti testuali e fatti extratestuali. Semplicemente la "Letteratura italiana", anziché ricavare la propria forma discorsiva dalla temporalità diacronica, intesa come una sorta di involucro o contenitore onnicomprendente, sceglie in modo risoluto (e comunque del tutto legittimo) di collocarsi all'interno di questo secondo orizzonte. Essa denuncia così l'eventuale errore di chi attribuisse alla temporalità un autonomo potere esplicative di totalizzazione unificante, per contro decidendo preliminarmente d'inserire il testo letteraria all'interno di una pluralità di relazioni molteplici ed eterogenee. Ciò non esclude che, tra queste relazioni, possa e debba esserci pure la relazione diacronica: è quanto confermano poi gli ultimi tre volumi, dove la storia viene peraltro coniugando sistematica applicazione al noto suggerimento di Dionisotti, con la dimensione geografica e spaziale ("Storia e geografia": I, "L'età medievale": II, "L'età moderna": III, "L'età contemporanea"). E va da sé che, per converso, ciascuno dei 'percorsi' via via intrapresi finirà a sua volta per seguire un proprio declivio storico.
Una seconda, decisiva opzione di metodo sarà invece sintetizzabile sotto la formula, a cui frequentemente ci si richiama nel corso dell'opera, della centralità del testo. E qui occorre forse qualche precisazione. Con questa formula, noi possiamo intendere che il testo si pone, appunto, al centro di una serie di relazioni, che lo connettono a fattori o soggetti bensì esterni, ma non per tanto meno pertinenti: autore, pubblico, editoria, istituzioni, poteri, convenzioni e disposizioni più o meno regolate e condivise, e via dicendo. Il testo sarà allora 'al centro ', non solo in quanto mediatore per eccellenza fra tali soggetti o fattori, ma anche in quanto al tempo stesso si costituisce e prende forma entro la trama di tali relazioni, che altro non sono se non le sue condizioni di possibilità: e ciò sia dal punto di vista della genesi, sia dal punto di vista della fruizione, o ricezione.
A questo ordine di problemi rinviano proprio gli elementi che più spiccatamente caratterizzano i primi due volumi della "Letteratura italiana", I, "Il letterato e le istituzioni", e Il, "Produzione e consumo": l'attenzione, voglio dire, rivolta a temi tradizionalmente assenti dalla storia letteraria, quali la storia del libro, della scrittura, dell'editoria, l'insegnamento della letteratura, o i nuovi problemi della cultura di massa Almeno questi vanno sicuramente annoverati tra gli acquisti che dovremo d'ora in poi considerare irreversibili, e che l'impresa di Asor Rosa sicuramente concorre a consacrare nella coscienza critica contemporanea: anche se, volendo, appare forse un po' troppo in ombra l'orizzonte della ricezione, che avrebbe contribuito ad arricchire la ricchezza dei riferimenti chiamati in causa, e di cui Asor Rosa mostra invece, a suo luogo, di non apprezzare granché le implicazioni metodologiche.
La formula della centralità del testo può assumere tuttavia anche un secondo significato. Ciò accade quando affermiamo che il testo letterario si definisce come tale in quanto 'introietta' le proprie condizioni di possibilità; ora centralità equivale ad autosufficienza, autonomia, autodeterminazione: essa ora coincide, in una parola, con il postulato di immanenza tipico della tradizione formalistica, strutturalistica, semiologica. I successivi volumi della Letteratura italiana (III, "Le forme del testo", e IV, "L'interpretazione"), definiti a loro volta 'centrali' nell'economia dell'opera, sembrano appunto scommettere sulla possibilità di una feconda convivenza tra le due prospettive. Personalmente, ritengo che sul piano teorico una concezione più generalmente relazionale dei fatti letterari sia preferibile all'eclettismo (si aggiunga che la medesima tradizione 'immanentistica', a furia di revisioni, aggiustamenti, integrazioni, appare oggi anch'essa estremamente composita, e finisce per accogliere tutto e il contrario di tutto). Ma è vero che un certo tasso di eclettismo resta ineliminabile da qualsiasi lavoro collettivo, e perciò non sarà questa la sede opportuna in cui sollevare il problema, se non a scopo, come stiamo facendo, di caratterizzazione descrittiva.
L'appuntamento con i due volumi sopra citati si rivela cruciale, semmai, sotto un altro profilo: quello della fedeltà al piano primitivo. Sia chiaro, è del tutto comprensibile che, con il tempo, si siano rese necessarie certe modifiche: se non altro, malto banalmente, perché la progettazione dei primi volumi sarà stata per forza di cosa più stringente e analiticamente definitiva, rispetto a quelli previsti su scadenze meno ravvicinate. L'elenco delle variazioni sarebbe comunque più lungo e di maggiore momento di quanto Asor Rosa non dica nel suo "Epilogo Vs" che chiude l'ultimo volume (dove 'vs' sta naturalmente per 'versus', con un senso però di direzione - "epilogo", come egli precisa, "verso qualcosa [...] non una fine ma un passaggio" -, anziché di opposizione). Vero è che questo elenco soddisferebbe in fondo poco più di una curiosità documentaria, visto che in genere prevalgono semplici sostituzioni o spostamenti: né mancano del resto, benvenute, le aggiunte completive. Alcuni 'pezzi' del programma originario sono comunque rimasti per strada, e non possiamo non rammaricarcene: la questione della lingua (argomento previsto nel volume III), la storia della traduzione (argomento previsto nel volume IV), la letteratura italiana e le arti figurative (argomento previsto nel volume V, "Musica, teatro, arti figurative", poi divenuto VI, "Teatro, musica, tradizione dei classici"). Meno significative, ai fini di un bilancio, le variazioni intervenute nel volume VI, poi divenuto V, "Le questioni"; un volume dedicato ai domini di senso, o se si preferisce alle strutture tematiche e agli intrecci conoscitivi su cui si è esercitata l'immaginazione letteraria: benché l'indice finale risulti assai rimaneggiato, la struttura eminentemente aperta, in un certo senso persino consapevolmente casuale, delle 'questioni' possibili attenua tuttavia, nella fattispecie, la portata strategica delle escursioni.
Un altro, e ultimo, rimpianto. Ciascuno di noi ha il suo canone di autori, che aspira, kantianamente, a rivestire validità universale, e appunto per questo ci procura delusione vederlo contraddetto da preferenze e gerarchie diversamente orientate. Ma è par sempre inutile compilare una lista di dissensi, perché ciascuno avrebbe la propria. Idiosincrasia per idiosincrasia vorrei però non tacere almeno uno di tali dissensi. Sono persuaso che Elsa Morante abbia scritto con "Menzogna e sortilegio" uno dei più bei romanzi, non solo italiani, del dopoguerra, e che per l'insieme della sua opera sia la nostra maggiore scrittrice in questo secolo. Mi riesce difficile comprendere come in oltre diecimila pagine, tranne qualche occasionale riferimento, si sia trovato per lei solo lo spazio di quella ventina di righe che le sono riservate nel volume conclusivo di questa "Letteratura italiana".

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