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recensione di Puccini, D., L'Indice 1990, n. 8
Per favore, non fatemi fare la Cassandra che piange su tutte le cattive traduzioni! Anche presso la nuova Einaudi (è di questa casa, ora molto trascurata, lo scempio di cui qui mi occupo) sono uscite buone traduzioni: per esempio, dei libri di narrativa di Cristina Peri Rossi e di Alvaro Mutis, e, credo, di Celasolo per limitarmi al mio campo e alle cose più recenti. E lo dico o lo dirò: per scrivere finalmente qualcosa in senso positivo.
Ma il brutto, in questo caso, è che lo scrittore messicano Juan Rulfo, maestro riconosciuto di tutta la migliore narrativa ispano-americana di questi anni, ha avuto una sfortuna nera in Italia, e così nera che si rischia di parlare di lui, per i suoi libri, come di un fantasma o di un equivoco grossolano, tanto più che la sua opera è composta di soli due volumi: il romanzo "Pedro Páramo" dalle cui pagine tremende e allucinate qualcosa arriva pur sempre attraverso le maglie sporche e ostruite delle versioni; e questi racconti concisi e vibratili di "La pianura in fiamme", che per la prima volta apparvero, presso Mondadori, in una traduzione che tanto intendeva conservare il presunto "colore locale" da seminare il testo di tanti "usted", di tanti "sombreros" e di tante "se±oritas" neppure virgolettati. Un Messico di maniera, a cominciare dal titolo cambiato ("Morte al Messico").
Purtroppo la traduzione che ora presento non si può neanche chiamare tale perché è appena una trasposizione di vocaboli successivi dallo spagnolo a una sorta di italiolo (quello di Helenio Herrera), alcune volte incomprensibile persino a chi ricorda vagamente l'originale. Perché certo è assai arduo tradurre Rulfo, ma la lingua letteraria italiana - mettiamo da Verga a Calvino - ha sufficienti mezzi e risorse per giungere a un'approssimazione delicata e attenta al linguaggio scarno, sussurrato, quasi pudico, essenziale dello scrittore messicano. Basta rispettare le due lingue e non confonderle. Ma questo è il guaio del bilinguismo: che soltanto in casi rarissimi e molto sofferti, sofferti in vita e cultura, può giungere alla contemporanea buona scrittura tanto nella lingua madre quanto nella lingua acquisita.
Non ho dubbi che Francisca Perujo - e lo so bene - conosca alla perfezione Rulfo, e ne può essere interprete agguerrita; ma ella ignora totalmente la lingua italiana e la sua grammatica, la sua sintassi, per non parlare delle tante sue sfumature, ivi comprese le forme semidialettali e popolaresche, idioletti e simili. Ditemi se si può considerare di un grande scrittore questo brano, scelto a casaccio: "Lo riconobbi per la forza dei suoi occhi: un po' duri, come se facessero male. Lo vidi bere acqua e poi fare delle boccate, come chi si sciacqua la bocca; ma quel che succedeva era che aveva mandato giù una buona manciata di girini...".
Ma passiamo a Rulfo e ai suoi racconti, almeno per far capire al lettore che cosa ha finora perduto o perde. Si tratta di brevi storie senza la minima ricerca di esemplarità, ossia di tesi e di morale implicita: brani di vita aspra, scene di sofferenza, resoconti di solitudine e di desolazione, spicchi d'ingiustizia e di violenza, antiche vendette portate dentro per anni, strascichi della rivoluzione, ecc.: sullo sfondo di un Messico arido e ingrato, ben riconoscibile nella "Jalisco" dell'autore.
Per questo genere di racconti la mente risale alle 'tranches' delle vie naturaliste o veriste. E qualcosa, molto in profondo, di questa origine è impossibile non intravedere. Ma la tecnica di Rulfo sta tutta nella sottrazione: laddove il naturalismo descrive, egli accenna; laddove il naturalismo accumula dettagli, egli ne toglie; laddove il naturalismo s'attarda a far capire il contesto sociale d'ogni accadimento, egli lo ignora. E questi racconti - alla resa - risultano come sospesi in un'aura di magia: il segno del destino, il senso dell'ineluttabile, l'accettazione della fatalità delle cose sono prodotti - si direbbe - di una forza occulta, forse divina, forse diabolica, a mezzaria tra cielo vuoto e terra desertica. Del resto di tutto questo libro stampato, la cosa migliore è il giudizio di Emilio Cecchi su Rulfo, che vi è riportato in quarta di copertina: dove discorre di "casalinga, rustica magia, immune d'ogni pretesa intellettualistica, e da pose snobistiche ed estetizzanti".
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