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1991
1 gennaio 1997
VIII-237 p.
9788806125011

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bonifacio alberto
Recensioni: 5/5

da inserire nei libri di storia a scuola......

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sandro landonio
Recensioni: 5/5

E’ più che una cronaca degli anni bui dell’ Italia: la figura morale del protagonista di questo libro è un messaggio assoluto. Con la società di oggi i meccanismi sono gli stessi: tutti i giorni ognuno di noi finge di non vedere le micro-ingiustizie, i micro-soprusi ed accetta poi mentalmente in modo fatalistico gli stessi fatti che, su maggior scala, apprende la sera dalla televisione. La peste citata nell’ introduzione ammorba l’aria delle nostre città ora come allora. Allora nel 1979 ed allora nel 1991, quando il libro è stato scritto: a gennaio 1992 non iniziava forse tangentopoli ? E’ un infezione più simile a quella di Camus, che a quella della “Cronaca della colonna infame”, infida ci permea tutti, impedendoci di onorare maggiormente nel ricordo pubblico persone come Giorgio Ambrosoli, esempio per tutti noi, che continuiamo ad essere scontenti dei nostri politici, di destra o di sinistra che siano e che continuiamo a votare. Onore all’ onestà ed al coraggio di quest’uomo. Spero leggiate il libro.

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Roberto
Recensioni: 5/5

Un altro libro storia ben scritto da far leggere ai nostri ragazzi affinchè non siano dei ciechi risparmiatori ed acquirenti di obbligazioni Cirio e Parmalat o Bipop e capiscano quanto sia importante capire gli intrecci tra politica e affari e tra affari, politica e Vaticano. Un libro da tenere nelle nostre librerie. Ciao.

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Voce della critica


recensione di Fini, M., L'Indice 1991, n. 7

Dei tanti scandali che hanno devastato la prima Repubblica, quello di Michele Sindona è uno dei più neri e duri da decifrare. La materia è aggrovigliata, fitta di numeri, soffia un'aria mortifera e il protagonista corre alla perdizione condotto dal demone dell'isteria. La diffusa letteratura sul caso dà un'informazione frammentaria e oscura: occorre essere esperti di bilanci e di ingegneria giudiziaria per orientarsi tra i mille percorsi dell'apparente follia sindoniana, dalle prime 'joint ventures' con la Democrazia cristiana e il Vaticano, alle scorrerie nei salotti della finanza ambrosiana, per finire con le bande armate della mafia siculo-americana e coi ricatti della P2 di Gelli.
Corrado Stajano nel suo libro "Un eroe borghese" è riuscito a dare una dimensione umana a questa ripugnante materia. Le vicende del crack Sindona sono ricostruite da un punto di vista particolare e privilegiato: attraverso gli occhi limpidi di Giorgio Ambrosoli, avvocato milanese perbene, curatore fallimentare della principale banca sindoniana, morto sul campo, ma, si può dire, senza l'onore delle armi e nel silenzio generale. La scelta di Stajano, raccontare la vita dell'oscuro liquidatore, è narrativamente efficace, permette l'identificazione del lettore nel protagonista, fa scattare la molla della pietà e dell'indignazione. Stajano l'aveva già adottata con successo per ricostruire le vicende, altrettanto ostiche, del terrorismo, vedi le interviste alla vedova Pinelli e alla zia testimone di Valpreda nel documentario televisivo "La forza della democrazia", o le biografie, altamente simboliche di un particolare periodo storico, del giovane "sovversivo" Franco Serantini e di Marco Donat Cattin.
L'osservatorio di Ambrosoli è quella giusto anche perché poggia sull'unica terra ferma di un terreno altrimenti franoso. Come per quasi tutti i grandi scandali di regime, il caso Sindona non ha ancora trovato una sistemazione giudiziaria, ma sulla morte di Ambrosoli, la magistratura italiana ha potuto emettere il suo giudizio. Giorgio Ambrosoli fu ucciso, sulla porta della sua abitazione milanese in via Morozzo della Rocca 1, a mezzanotte circa tra l'11 e il 12 luglio 1979, con tre colpi di pistola da William J. Arico, pagato a questo scopo da Michele Sindona e Robert Venetucci, uomo della mafia italoamericana. Sindona, condannato all'ergastolo dalla Prima Corte d'Assise di Milano il 18 marzo 1986, muore quattro giorni più tardi, dopo aver bevuto una tazza di caffè, nel carcere di Voghera dove è guardato a vista. Fa in tempo a urlare: "Mi hanno avvelenato", ma gli inquirenti sceglieranno l'ipotesi di un suicidio con simulazione di omicidio.
Il libro di Stajano racconta soprattutto gli ultimi cinque anni di vita di Ambrosoli, esponendo con puntigliosa e quasi dolorosa ostinazione quello che l'uomo fa per attirarsi la condanna a morte. Ambrosoli è un moderato di principi rigorosi. Un borghese umbratile, lo definisce Stajano. La forza del personaggio deriva dal fatto che egli non si pone di fronte alle illegalità di Sindona e soci, con l'animus dell'intellettuale o del militante di sinistra, denunciando i soprusi del nemico di sempre, il capitalista ladro e corrotto. Ambrosoli si muove contro l'illegalità per conto della legalità borghese. La sua denuncia è in nome dei valori tradizionali, universalmente riconosciuti, non può essere tacciata di faziosità o amor di sovversione. L'unica cosa che Sindona non poté mai dire è che Ambrosoli fosse strumento del presunto complotto comunista che, secondo lui, lo perseguitava. L'uomo farà il suo dovere di servitore dello stato fino in fondo; cadrà facilmente preda dell'assassino e sarà scomodo anche dopo la morte. Tipico "cane senza collare", non può essere adottato da alcuna parte politica trovando il suo habitat naturale in quell'area laica, giacobina, che ha avuto solitari predicatori nel dopoguerra e ora stenta a sopravvivere.
Le coordinate, umane e culturali, di Ambrosoli come giovane avvocato, sono indicate con esattezza: un padre che è laureato in giurisprudenza ma preferisce lavorare alle dipendenze di una banca, una giovinezza monarchica con relativo culto del re in esilio Umberto e di papa Pio XII, una progressiva evoluzione verso il campo liberale e repubblicano. Ambrosoli, che nel 1962 si sposa con Anna Lorenza Gorla (Annalori, gli darà tre figli), ha il suo primo "fatale" incarico nel 1964: la liquidazione della Sfi, la finanziaria dei tessili biellesi, creatura del piemontese leader democristiano Giuseppe Pella, un ente che opera come una banca senza esserlo. La Sfi è una buona iniziazione: l'ingenuo Ambrosoli impara a leggere tra le cifre dei bilanci e dietro le frasi rituali dei politici dello scudo crociato. L'avvocato svolge il suo compito fino in fondo, ma senza forzature o giustizialismi e dieci anni dopo si ricorderanno di lui, alla Banca d'Italia, quando si tratterà di una patata ancora più bollente, la Banca Privata Italiana di Michele Sindona.
Giorgio Ambrosoli viene nominato commissario liquidatore della Bpi con decreto del ministro del tesoro del 24 settembre 1974. Entra in banca lo stesso giorno. Sceglie una stanza diversa da quella occupata da Sindona. Stajano fornisce una mappa precisa dell'ambiente di lavoro del suo eroe borghese, in quel quadrilatero dietro la Scala, che vede concentrata la maggior ricchezza, la più sottile sapienza finanziaria, la più sofisticata criminalità di Milano. Tutto il libro ha questo andamento da piccolo grande quadro fiammingo, un disegno nitido, una rete fittissima di rimandi, fisiognomici e anche toponomastici. Intorno al commissario opera una squadretta di collaboratori, che svolge puntualmente l'incarico di legge, ma, date le circostanze, è costretta a muoversi, nella cittadella del denaro, come un commando in missione speciale. Emerge la figura di Silvio Novembre, maresciallo della Finanza, ineccepibile servitore di uno stato lontano, sobrio difensore di Ambrosoli, un personaggio che rimane inciso nella memoria.
Il passaggio dagli anni sessanta ai settanta è contrappuntato dalla strategia della tensione. Il centro-sinistra ha rotto un equilibrio decennale, il partito comunista ha iniziato una lunga, circospetta marcia di avvicinamento al potere, il blocco moderato ha eretto sbarramenti, innescato un sanguinoso meccanismo di provocazione e di sangue. Giulio Andreotti nel 1972 va al governo coi voti del Movimento sociale. Parallelamente Aldo Moro comincia a guardare a sinistra e c'è Ugo La Malfa a resistere sul fronte laico.
Michele Sindona, sbarcato a Milano nei primi anni settanta, con capitali di oscura provenienza, ha navigato tempestosamente in questo mare procelloso. Ha bordeggiato a lungo con Amintore Fanfani, quando l'aretino è segretario del partito, poi ha capito che il mazzo è nelle mani più sottili di Andreotti. Ha fatto tandem con Paul Marcinkus, il tesoriere mondano di Paolo VI, ha pagato quel che c'era da pagare, ha potuto costruire un'ardita architettura di banche e finanziarie multinazionali. Dapprima col consenso della Banca d'Italia, poi tra crescenti resistenze, quella cristallina di Ugo La Malfa, quelle oblique di Guido Carli e Enrico Cuccia. Quando la Banca Privata Italiana di Sindona finisce sotto le cure di Ambrosoli, nel 1974, la parabola del banchiere di Patti è in fase calante. Gli americani lo accusano di bancarotta, i partner europei più avvertiti hanno da tempo intuito lo sfondo mafioso della sua agilità finanziaria. Per salvarlo, contro la legge e contro Ambrosoli, si muove soprattutto Giulio Andreotti, dietro la cui faccia sardonica comincia a stagliarsi il profilo qualunque di Licio Gelli.
Giorgio Ambrosoli sa tutto questo? Di sicuro ha perso l'ingenuità ai tempi della Sfi. Ne sono prova il testamento lasciato alla moglie e scritto fino dal febbraio del 1975, e le note sul diario, straordinario documento inedito che Stajano utilizza egregiamente come filo conduttore della sua storia. A fornire tessuto alla narrazione il diario concorre insieme e in contrapposizione con l'agenda di Rodolfo Guzzi, l'ambiguo avvocato di Sindona, partecipe del suo disegno ricattatorio e infaticabile collegamento con i centri del palazzo andreottiano.
L'affresco che fa da sfondo alla vicenda di Ambrosoli è tratteggiato invece sulla base dei molti lavori delle commissioni parlamentari d'inchiesta (Sindona, mafia e P2) e delle molte istruttorie (Giuliano Turone, Ovilio Urbisci, Guido Viola): tremendi depositi di atti d'accusa e spietati ritratti di uomini politici, che Stajano sottrae, finalmente, a una lettura solo specialistica e integra con naturalezza nel suo tessuto narrativo. Fonti della letteratura classica vengono utilizzate, per dare un timbro morale alla vicenda, come la pertinente citazione della peste manzoniana che apre sui toni gravi la biografia. "Un eroe borghese" non è mai un divertimento letterario. Scritto con sapienza, accumula tuttavia un materiale politico di prima mano. Di Andreotti si è già detto e scritto tutto il male possibile. Ma in questo libro il suo gioco tocca punte inedite di perversione. Egli è al centro di un inesauribile turbine "documentato" di ricatti, intimidazioni, depistaggi. I suoi fiduciari Franco Evangelisti, Gaetano Stammati, Roberto Memmo, Fortunato Federici fanno per lui. È sintomatico che le varie commissioni possano esibire lettere estremamente compromettenti (e puntualmente citate da Stajano), ma dirette a lui e mai scritte da lui. Egli è la sponda, il terminale di tutti gli intrighi. Ma è la sua rete a sporcarsi direttamente le mani. L'obiettivo è salvare Sindona, salvare i finti crediti Ior e Dc, aperti nelle sue banche, ritardare l'estradizione del bancarottiere fuggito negli Stati Uniti. "Senza Andreotti, - concluderà anni dopo il magistrato Guido Viola, - "Ambrosoli sarebbe ancora vivo".
Con la fine del 1978 il ritmo dell'azione s'impenna. Paolo Baffi, che dal '75 governa la Banca d'Italia con trasparenza tenta in tutti i modi di difendere Ambrosoli dalle ripercussioni della dura lotta per il potere in corso all'interno della Dc (le lettere dalla prigionia di Aldo Moro, rapito e ucciso il maggio precedente, a lungo tenute nascoste e che Stajano usa in modo pertinente, ne danno un'idea concreta). L'avvocato di Sindona prende un sinistro appunto "Bloccare Ambrosoli". Sindona convoca a Zurigo Enrico Cuccia e Cuccia, l'inavvicinabile eminenza grigia della finanza italiana, prende e va. Nell'aprile del '79 vola addirittura a New York, su altra perentoria convocazione di Sindona.
Cuccia, questa "anguilla, sirena dei mari freddi", come lo definisce Stajano con imprevedibile e irresistibile citazione montaliana, sembra in balia del terribile avversario. È costretto ad ascoltare la propria condanna a morte e un'analoga sentenza per il commissario liquidatore. Ma una volta in patria, tace. Prenderà le sue misure, cambierà indirizzo, si sottrarrà alle ricerche. Si guarderà bene dall'avvertire chicchessia, non Ambrosoli, non i magistrati, non la polizia. Cuccia conosce le segrete regole della sopravvivenza. A differenza di Ambrosoli, "Povero Ambrosoli, conclude Stajano, morto forse per nulla in nome dei principi di onestà. Da ragazzo aveva sognato di morire in battaglia per la patria su un cavallo imbizzarrito. Come Petia Rostov. È morto assassinato su un marciapiede di città, per una patria smarrita".


recensione di Canova, G., L'Indice 1991, n. 7

Immaginiamo che sia solo un giallo. Proviamo a dimenticare che i suoi attori sono gli interpreti autentici delle trame oscure dell'Italia degli anni settanta, e che tutto ciò che è narrato è il frutto della ricostruzione rigorosa di uno dei casi giudiziari più inquietanti della nostra storia recente. Proviamo cioè, una volta tanto, a prendere alla lettera la quarta di copertina ("un giallo che racconta una storia del nostro tempo") e a rovesciare come un guanto il sistema di attese implicito nel patto narrativo: a leggere cioè "Un eroe borghese" di Corrado Stajano non perché racconta una storia vera, ma come se narrasse una trama immaginaria, come se fosse soltanto e semplicemente un romanzo.
Forse, misurando la coerenza e la forza "romanzesca " del libro, la sua capacità di essere narrativamente persuasivo, diventa poi possibile valutarne appieno l'impatto sul pubblico e misurarne, in qualche modo, il valore d'uso non solo letterario, ma anche politico e sociale. Magari allargando la riflessione a quei prodotti sempre più numerosi che utilizzano gli strumenti specifici della narrativa poliziesca per mettere a fuoco brandelli e frammenti della realtà (da "Il sospetto" di Laura Grimaldi al recente libro di Carlo Ginzburg sul caso Sofri).
Da un punto di vista "giallistico", "Un eroe borghese" è un libro anomalo. Non è un 'whodunit' (un intreccio in cui la curiosità del lettore è focalizzata sulla scoperta dell'identità del colpevole), giacché vittima, esecutori e mandanti del delitto di cui si narra sono noti a tutti ancor prima di iniziare la lettura, vuoi per le informazioni della cronaca vuoi per il "sentito dire" giornalistico o per quegli elementi para e pre-testuali che inducono il lettore, appunto, a intraprendere la lettura. Ma "Un eroe borghese" non è neppure un suspense o un thrilling, giacché gli elementi di tensione, così come le sorprese, le attese e i colpi di scena giocano un ruolo molto marginale. In "Un eroe borghese", c'è poco da sorprendersi. Del resto, gli stessi armamentari retorici che sul piano della scrittura presiedono allo sviluppo dell'intreccio tendono ad azzerare o a ridurre al minimo la suspense con un accorto gioco di prolessi e anticipazioni o con l'uso insistito di interrogative retoriche che diluiscono la tensione e rendono ridondante il testo ("In quell'ultima estate, Ambrosoli sa che la sua morte è vicina? La sente dentro di sé come il proprio nocciolo un frutto?", p. 104; "Come può sentirsi neutrale un uomo onesto e leale di fronte alla frode sistematica e alla giustizia violata con impudenza?", p. 107). Da questo punto di vista, più che a un giallo che giochi le sue carte su un mélange di suspense e di surprise, "Un eroe borghese" assomiglia decisamente a una sorta di "cronaca di una morte annunciata" in cui ad essere valorizzati sono soprattutto i dettagli, i particolari, i nessi connettivi, i legami nascosti e non sempre immediatamente evidenti di causa e effetto. Dalla tradizione e dalla procedura giallo-poliziesca Stajano desume piuttosto alcuni 'topoi' ipercollaudati e di sicuro effetto, incastonandoli nella narrazione per rinvigorire l'atmosfera di "mistero": si vedano, ad esempio, lo stereotipo del killer che aspetta nella notte, quello della "casa rassicurante" in cui cerca rifugio e riparo la vittima designata o, ancora, quello tipicamente "alla Poe" della lettera rubata (in questo caso, il compromettente tabulato con i nomi dei potenti coinvolti in sporche operazioni finanziarie che misteriosamente scompare, ma continua ad agire come elemento di ricatto sulla scena politica italiana). Lo stile e il linguaggio del libro sono abbastanza lontani dalla secca essenzialità funzionale dei migliori prodotti della narrativa poliziesca. Stajano non disdegna metafore note ("le carte che scottano", il "pozzo nero ", le "matrioske finanziarie") e le facili ambiguità psicologizzanti ("I giovani della sinistra extraparlamentare temono, o forse desiderano, a ogni alba il colpo di Stato", p. 33), n‚ evita una sintassi enfatico-anaforica che si avvicina più ai toni di un elzeviro moralistico che a quelli di un racconto denso di fatti e di avvenimenti ("i Decreti delegati appaiono come... un tentativo di rinnovare le strutture scolastiche, di far partecipare le famiglie alle scelte, di rendere più aperti i rapporti tra scuola e società, di creare un equilibrio tra il potere dell'assemblea, la rappresentanza, la delega", p. 35). Ma proprio qui sta il punto. Raccontare il crimine finanziario è guanto di più difficile possa proporsi un narratore. I romanzi gialli, non a caso, si fondano sempre su un'immediata evidenza del crimine, si tratti di omicidio, furto, sequestro, rapina o quant'altro. Nella maggior parte di essi si tratta per lo più di indagare sull'identità del colpevole, sulle protezioni e sulle complicità di cui ha goduto, sulle cause attenuanti o aggravanti che l'hanno indotto a delinquere, ma non sulla "criminosità" di un certo comportamento. Stajano si trova invece nella situazione opposta: racconta di criminali che il senso comune riconosce come tali, ma deve riuscire a spiegare come e perché il loro comportamento risulta criminoso. Impresa ardua, si diceva. E anche Stajano, di tanto in tanto, vi si perde, lasciando prevalere il giudizio sul racconto, o ricorrendo a metafore come quella iniziale degli "untori" che lasciano francamente perplessi. Eppure, nonostante i limiti, le zone d'ombra e le ambiguità, "Un eroe borghese" è un libro che avvince. Il motivo ci pare uno solo: l'indiscussa superiorità cognitiva del racconto sulla cronaca. Se la cronaca giornalistica assomiglia sempre più a un eterno presente fattuale composto da una miriade di microtasselli irrelati, il racconto invece ricompone un quadro d'insieme, consente un percorso interpretativo, collega brandelli di informazioni altrimenti condannati a vagolare isolati nella memoria. E offre, in tal modo, per lo meno l'illusione di poter ancora leggere il mondo, di capirlo. Quanto a cambiarlo, è davvero un'altra storia. Gialla, molto gialla.


recensione di Tranfaglia, N., L'Indice 1991, n. 7

Il sottotitolo del saggio di Corrado Stajano recita: "Il caso dell'avvocato Giorgio Ambrosoli assassinato dalla mafia politica". In quest'espressione, forse eterodossa dal punto di vista delle categorie storiche e sociologiche elaborate dagli specialisti, ma di immediata efficacia per il lettore, sta un aspetto fondamentale dell'ottimo lavoro di Stajano.
In altri termini, la vicenda si spiega soltanto alla luce dell'intreccio sempre più forte tra le organizzazioni mafiose e una parte importante del ceto politico italiano, anzi di quello dominante. Stajano utilizza fonti giudiziarie e parlamentari di cui i maggiori giornali diedero scarsa e superficiale notizia e che finora, non a caso, sono state accantonate da più di uno studioso di quei drammatici anni settanta: la relazione e gli allegati della commissione d'inchiesta sul caso Sindona pubblicati il 24 marzo 1982 dalla Camera dei deputati, la sentenza-ordinanza del giudice istruttore Giuliano Turone del 17 luglio 1984 nel processo contro Michele Sindona, le numerose relazioni al tribunale di Milano di Giorgio Ambrosoli come liquidatore e molti altri documenti dello stesso genere. Si tratta di fonti in generale attendibili perché passate a severi vagli successivi, in qualche caso parzialmente accettate (parlo delle conclusioni della commissione d'inchiesta parlamentare) anche dalla Dc e dall'attuale maggioranza di governo e, in ogni caso, suffragate da molteplici riscontri e testimonianze.
Ebbene, dalla ricerca condotta con grande attenzione e lucidità dall'autore emergono, sul piano storico e politico, i seguenti risultati:
1) Il rapporto tra Sindona e la mafia siculo-americana da una parte, la loggia P2 di Licio Gelli dall'altra non è episodico o isolato ma "organico", come dimostra la forte mobilitazione che l'una e l'altra organizzazione mettono in essere di fronte al pericolo di bancarotta del finanziere siciliano
2) Il sistema politico di governo italiano a sua volta entra in azione per scongiurare lo stesso pericolo: il presidente del consiglio Giulio Andreotti ("l'uomo politico - secondo la relazione di maggioranza della commissione d'inchiesta - che ha avuto prima e dopo il crack, i maggiori rapporti con Sindona"), recente senatore a vita per volontà di Cossiga, il segretario della Dc Amintore Fanfani, il ministro del commercio per l'estero, poi dei lavori pubblici Stammati (della P2), il sottosegretario alla presidenza Franco Evangelisti si mostrano tutti molto preoccupati e particolarmente interessati ad evitare che si arrivi al fallimento. Non solo: quando Sindona, in un ultimo tentativo, chiede degli 'affidavit' che facciano fede sulla sua correttezza e sull'importanza della sua azione per difendere la moneta italiana, ottiene dichiarazioni lusinghiere da parte di importanti politici (tra cui l'allora segretario del Psdi Franco Orlandi), alti magistrati (ad esempio, il presidente di sezione della Cassazione, Carmelo Spagnuolo, anche lui P2) e dichiarazioni favorevoli di noti personaggi della P2 e della destra come Edgardo Sogno, per non parlare di quel personaggio notevole dell'alta finanza che era Anna Bonomi.
3) Se i primi due rapporti sono innegabili e più volte provati, nessuno può credere che la preoccupazione dei politici e degli altri (tra i quali il vertice di allora di due banche di interesse nazionale) dipenda dalla piccola somma (due miliardi, secondo i dirigenti democristiani) che Sindona aveva fatto avere alla Dc.
Si intravede, in realtà, un circuito fatto da una parte del ceto politico di governo, dalla loggia P2 di Licio Gelli e dalla mafia siculo-americana. Il caso Sindona è emblematico proprio perché il bancarottiere siciliano è uno degli uomini di collegamento tra i vari punti del circuito giacché ha contemporaneamente rapporti con la mafia, la P2 e il ceto politico di maggioranza. Ed è da questa constatazione, che non può sfuggire a chiunque conosca la vicenda di Ambrosoli, che Stajano ha ritenuto di dover partire per la sua espressione "mafia politica". Personalmente (come ho fatto nel saggio dedicato alla "mafia come metodo") preferirei parlare di un sistema di poteri occulti presenti nell'Italia repubblicana, e via via più forte di fronte ai progressi della sinistra e alla possibilità di perdere il potere o di doverlo dividere con essa, un sistema che convive ma prevale su quello visibile costituito dai poteri politici (governo, parlamento, ecc.) ed economici previsti dalla Costituzione.
È, a mio avviso, l'apertura di centro-sinistra negli anni sessanta, e soprattutto la crisi di quella formula presto anestetizzata dalla Dc di Aldo Moro, a innescare un processo di selezione nel ceto politico di governo e di organizzazione occulta che sfocia da una parte nell'ascesa della loggia P2, dall'altra nei rapporti con le mafie sempre più presenti sul territorio e potenti nell'organizzazione dei traffici miliardari della droga e nella manipolazione del consenso elettorale attraverso la generalizzazione del voto di scambio nelle regioni meridionali (ma ormai non solo in esse).
Per evitare la scorciatoia, del tutto illusoria, di demonizzare singoli personaggi particolarmente esposti e addebitare soltanto a loro in quanto individui quel che accade, è necessario ipotizzare una spiegazione convincente di questo che è senza dubbio un processo involutivo della politica italiana. Un aspetto importante è stato segnalato da Franco De Felice nel saggio pubblicato nel 1989 sulla rivista "Studi Storici" con il titolo "Doppia lealtà, doppio Stato". Dopo aver sottoposto ad analisi critica le teorizzazioni precedenti sul doppio stato (a cominciare da quelle di Fraenkel e di Lederer), lo storico pugliese propone un'interpretazione complessiva della vicenda repubblicana legata alla guerra fredda e al vincolo assai stretto del ceto di governo italiano attraverso i servizi segreti al governo americano in funzione anticomunista. De Felice vede i collegamenti di cui ho parlato come espressioni di tappe successive della "doppia lealtà" e il caso Sindona come un momento nel quale i collegamenti ceto politico, P2 e organizzazioni mafiose si esplicitano con particolare evidenza.
Accanto a questo elemento che l'inchiesta ancora in corso su Gladio dovrebbe consentire di chiarire ulteriormente, c'è stata a mio avviso (ma su questa linea si sono mossi, sia pure con diverse accentuazioni, altri autori, da Giorgio Galli a Eugenio Scalfati a Sergio Turone), una degenerazione della politica di governo che si è, almeno in parte, trasformata in lotta tra famiglie mafiose che adottano appunto un metodo idoneo per prevalere, quel "metodo mafioso" fatto di ricatti, avvertimenti, minacce ed azioni violente che abbiamo visto in piena azione fino al tragico epilogo nel caso Ambrosoli. Se si vuole, tuttavia, superare il momento della constatazione dei guasti prodotti nel sistema politico italiano dai fenomeni segnalati, occorre senza dubbio rifarsi, accanto al tema della "doppia lealtà", a quello centrale nell'esperienza repubblicana della lunga mancanza di alternativa, del perpetuarsi di una classe politica eterna e sempre eguale a se stessa, che vede ministri e presidenti del consiglio al potere dal 1945, uomini investiti da scandali clamorosi e pur sempre in sella (basti citare i casi degli attuali ministri democristiani Gaspari, Lattanzio, Misasi, oltre che del principale tra i democristiani, appunto Giulio Andreotti). Una mancanza di alternativa politica tra due opposti schieramenti che si deve addebitare in primo luogo al "partito americano" assai forte nello schieramento centrista e quindi, almeno fino a tutti gli anni sessanta, al legame di ferro tra l'Unione Sovietica e i comunisti italiani. Su un altro piano - quello dei centri di potere economico - la vicenda Ambrosoli dimostra che non solo non ci fu resistenza ai progetti e alle azioni criminali di Sindona ma al contrario ci fu da parte dei loro maggiori esponenti o cedimento alle minacce (è il caso di Eugenio Cuccia, consigliere delegato di Mediobanca ed eminenza grigia del "salotto buono" della finanza e dell'industria italiana) o tendenza ad atteggiamenti pilateschi (è il caso di Guido Carli, fino al 1975 governatore della Banca d'Italia che si oppone ai disegni di espansione di Sindona ma non va fino in fondo nel dovuto esercizio dei poteri di vigilanza sulle banche del finanziere mafioso) o addirittura collusione (è il caso di Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, di Paul Marcinkus dello Ior vaticano, di Ferdinando Ventriglia del Banco di Napoli, di Mario Barone del Banco di Roma e di molti altri). Che cosa possono significare simili comportamenti se non il fatto che Sindona facesse organicamente parte del sistema di poteri occulti dominante nell'Italia degli anni settanta e che i maggiori centri di potere economico, a loro volta, partecipassero di quel sistema?
In queste tenebre evocate da Stajano il comportamento di Ugo La Malfa, l'unico uomo di governo che si oppose con tutti i mezzi ai progetti di Sindona, di Baffi, governatore della Banca d'Italia, e di Sarcinelli, vicedirettore generale della medesima, appaiono come eccezioni luminose, indizi del fatto che nella società civile, come in quella politica, ci sono ancora parti sane. L'impressione che si ha nell'Italia di oggi è che queste parti sane siano sempre più in difficoltà di fronte al degrado delle istituzioni e della politica. Se non ci saranno assai presto nette inversioni di rotta, sarà difficile (io credo), nonostante la loro perdurante presenza, superare l'attuale crisi della repubblica.

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Conosci l'autore

Corrado Stajano

1930, Cremona

Ha scritto su importanti quotidiani e settimanali, ha firmato per la Rai documentari televisivi di argomento politico e culturale. Ha pubblicato, da Einaudi, Il sovversivo (1975), La pratica della libertà (1976), Africo (1979), L'Italia nichilista (1982-1992), Un eroe borghese (1991) da cui è stato tratto il film omonimo, Il disordine (1993). Con Garzanti ha pubblicato Promemoria (1997, Premio Viareggio), Ameni inganni (con Gherardo Colombo, 2000), Patrie smarrite (2001), I cavalli di Caligola (2005), Maestri e Infedeli (2008). Ha inoltre curato il volume che raccoglie gli atti d'accusa del maxiprocesso di Palermo, Mafia (Editori Riuniti, 1986) e La cultura italiana del Novecento (Laterza, 1996).Fonte immagine: Maremosso

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