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recensione di Coletti, V., L'Indice 1996, n. 2
Il tempo di questa storia sta tutto tra la sera, quando la serva Clementina comincia i preparativi per curare le mani artritiche della padrona, e la notte, quando questa, la novantenne Mosca Centonze, sente ancora una volta, come nell'infanzia, la "ninna nanna del lupo". Nel breve spazio di una casetta in un paesino siciliano e di una serata si infila, in sequenza regolare, il lungo passato delle due anziane donne e specialmente quello della protagonista, di Mosca. E il ricordo naviga tra Bisacquino, il paese in cui è tornata e l'America in cui è vissuta, in sanatorio, prima, e poi come moglie di un temuto boss mafioso. Tante figure tornano così a rianimarsi: l'amica armena del sanatorio americano, la madre senza dolcezza, il rivoltante marito, il podestà pervertito e poi orribilmente ucciso e mutilato in un misterioso delitto (di cui alla fine si scoprirà il colpevole), il canonico mezzo matto, i medici.
Mosca sopravvive ai suoi anni e alle sue sofferenze difendendosi con un ostinato silenzio, che, a quanto pare, è, e non da oggi, il tratto distintivo delle grandi donne del romanzo (si pensi alla recente "Marianna Ucria" della Maraini); nel silenzio tiene a bada gli affetti negati, la rivolta a un destino e a una condizione segnati, la curiosità dei vicini, la sua terribile vendetta di donna infeconda, le nostalgie simbolizzate dalla nenia del lupo. La limitatezza temporale dello sfondo da cui partono i ricordi esalta la rievocazione del passato, ulteriormente ingigantita da una scrittura tutta volta al particolare, alla descrizione, compiaciuta di osservare assai più che preoccupata di narrare. E non c'è dubbio che il lettore, più che da ogni altra cosa, sia attirato dalla lingua della Grasso, vistosa, esibita, frutto di invenzioni e di perlustrazioni vocabolaristiche, di ricordi e manipolazioni.
Sembra una regola (quasi) tra gli scrittori siciliani recenti, questa della lingua spessa e manierata, ora classicamente intonata (come in Bufalino) a eleganze un po' sfatte ("insino", "Pur s'erano minime schegge", "l'estremo ronciglio del Bisaccù", "glauco flutto"), ora baroccamente impetuosa (alla Consolo), con venature gaddiane (per esempio nelle ripetute terne di aggettivi, come queste, in poche righe: "dita... sfuggenti romite arrocchiate"; "Mosca... chiusa impervia asciutta", "tramonti... spicci corti voraci"). Una parata verbale da lasciare incantati (ma non sempre è un buon segno) i linguisti, attirati da regionalismi estremi (come il "mentre" in funzione di avverbio) o da dialettismi (come tampasiava, alluttavano, annegghiate, ddraun…ra), da coniazioni sapienti, che spesso sfruttano astutamente il retroterra dialettale (allardicavano, incantesimava, assincopate, scriocchiolentula, sapitura, allunacea) o fabbricate alla svelta (vedi le univerbazioni: pienipieni, occhioditriglia, tuttodunfiato, tuttuncolpo, ondelente), da certe uscite foniche insistite, anch'esse frequenti in siciliano (ad esempio in -ìo, -ìa: babberìa, bruna, lumìa, allucciolìo, imbruna, groggolìo, chiaroscurìa, clarìa) e in genere da tutto un gioco di derivazioni suffissali esposte (in -oso, o in -io -ia atoni: arrunchio, delizio, infuria).
"Non si vedono le parole, non si vedono mai. Le parole non hanno colore, non profumano, non hanno corpo. Non hanno spigoli n‚ trasparenze", pensa Mosca; e raramente un narratore si è impegnato tanto a smentire il suo personaggio. E per dotare di spessore, per pigmentare le parole, nulla di meglio, di più pronto (come da tradizione "comica" secolare) del linguaggio del corpo, dei suoi colori (quello del sangue, della malattia, del sesso, dell'omicidio), presente con dovizia, con esuberanza in ogni pagina del libro.
Ma questo linguaggio rivela allora, oltre le parole, un altro protagonista del romanzo e fa vedere nella corporeità minacciata (dalla malattia o dai pregiudizi), tormentosa e infine domata, la chiave di tutta una vita, ormai giunta al punto estremo in cui anche il corpo svapora e rinsecchisce. Questa funzionalità narrativa delle parole del corpo consente di perdonare anche qualche esibizionismo verbale di troppo, certa tensione stilistica gratuita e induce a pensare con soddisfazione che la materia non sia stata selezionata solo per esaltare la lingua.
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