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Conflitti di lingua e di cultura - Benvenuto Terracini - copertina
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Conflitti di lingua e di cultura - Benvenuto Terracini - copertina

Descrizione


La lingua come prodotto storico; i mutamenti nell'uso del linguaggio come affermazione della libertà spirituale del soggetto parlante; la dialettica fra attività soggettiva del parlante e il sistema linguistico. Questi sono alcuni dei nuclei concettuali intorno ai quali Terracini costruì questo volume. Il volume è diviso in tre parti: nella prima l'autore indaga la morte di una lingua come esito di mescolanza linguistica e concorrenza tra lingue e culture diverse; nella seconda affronta il problema del bilinguismo; nella terza, infine, il rapporto tra lingua e cultura è affrontato a livello teorico, ripercorrendo il pensiero di Vico, Humboldt e dei maestri della linguistica storica.
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Dettagli

1996
1 gennaio 1997
XXIII-241 p.
9788806140762

Voce della critica


recensione di Grignani, M.A., L'Indice 1997, n. 6

Questo libro dimostra come non sempre le traversie della vita e le esigenze dell'alta divulgazione danneggino il livello della produzione scientifica. Benvenuto Terracini, che aveva insegnato a Milano glottologia e storia della lingua italiana, in seguito alle leggi razziali fu costretto a passare all'università di Tucumán (1941-46). Le condizioni dell'esilio argentino gli suggerirono studi su temi romanzi e moderni e lo stimolarono ad approfondire la natura del rapporto tra una lingua e una cultura specifica. Dalle lezioni e conferenze tenute in Argentina esce il progetto di un trittico intorno a tre aspetti di questa interazione: le "conseguenze linguistiche del cambio di cultura" (capitolo I); le "conseguenze linguistiche che nascono da due forme di cultura opposte fra loro" e quindi anche il problema della traduzione (capitolo II); l'illustrazione di "che cosa propriamente sia e come si formi una lingua colta" (capitolo III).
Stampato in spagnolo a Buenos Aires nel 1951, il libro è stato tradotto, rielaborato dall'autore e proposto al pubblico italiano nel 1957 con approfondimenti del pensiero teorico e ampliamenti della bibliografia, di cui si occupano le pagine informatissime e partecipi di Maria Corti, allieva di Terracini. La Corti ricorda le virtù socratiche del maestro, la "tensione problematica", la curiosità per il nuovo, insomma una flessibilità perenne che lo portò a dialogare prima con lo storicismo tedesco di Dilthey e con la geografia linguistica, poi con la critica stilistica e lo strutturalismo jakobsoniano, mantenendo sempre uno stile "nutrito di una colloquialità bonaria e ironica insieme, che è oggi di grande attualità".
Qualche notizia sulla formazione scientifica e filosofica dell'autore serve a spiegare quel tanto di datato rinvenibile nel volume, ma solo a livello terminologico ("spirito della lingua", "spirito dei parlanti", "individualità creatrice", "libertà espressiva"), mai a danno della sottigliezza delle interpretazioni e della concretezza degli esempi. Terracini si perfezionò a Parigi in due direzioni: alla scuola francese di Jules Gilliéron, creatore della geografia linguistica, approfondì i forti limiti del metodo comparativo, conducendo così ricerche sperimentali di dialettologia su piccole entità come un villaggio; dalle lezioni di Antoine Meillet e Mario Roques si indirizzò a studi sul problema del sostrato, sulla storia del latino volgare e a riflessioni sulla linguistica storica. Determinante è stato poi l'influsso della linguistica idealistica di Vossler e del concetto humboldtiano di "forma interna" di una lingua, intesa come portato della storicità dei parlanti. Si capisce come, da questa valutazione del carattere creativo insito in ogni atto linguistico in quanto gesto culturale, Terracini abbia tratto incentivo a occuparsi non solo di dialetto o lingua come istituzione, ma anche di lingua d'autore e cioè di stilistica.
Veniamo alle tre parti del volume. Nella prima, "Come muore una lingua", gli esempi tratti da parlate fornite di preciso atto di morte (la variante celtica estintasi in Cornovaglia il 27 dicembre 1777, giorno della morte dell'ultima parlante; il dalmatico dell'isola di Veglia ucciso da una mina insieme allo scalpellino che lo testimoniava) fanno da mezzo di contrasto alla vicenda normale: cioè al fatto che il cambio linguistico non è simile a uno sparo di fucile, ma allo scorrimento di un fiume. Come si coglierà allora la fine di una lingua? Dal sentimento elementare che il parlante ha "di averla mutata per un'altra", sentimento successivo a un periodo di bilinguismo, nel quale uno dei due gruppi parlanti idiomi diversi consideri - o sia costretto a considerare - superiore il "prestigio" dell'altro. Il problema non è numerico, ma in senso lato culturale e conosce infinite variabili: come si sa i conquistatori spagnoli erano una minoranza rispetto agli indiani, eppure imposero la lingua; un certo dialetto caraibico è divenuto un idioma di donne "per soppressione violenta dei parlanti" maschili eliminati nella lotta tra tribù; e chissà quante altre parlate cessarono e cesseranno di esistere per "decreto ufficiale": esclusione dal parlamento, dall'insegnamento, dalla predicazione.
Di solito la questione è ancora più sfumata e ricca di processi di assimilazione e intreccio reciproco. Per esempio il gallico si ritirò di fronte al latino prima nelle città e nelle classi superiori, conservandosi più a lungo in sacche laterali e rifugiandosi in iscrizioni di argomento sacro o privato. Gli studiosi hanno discettato a lungo per testi più recenti, domandandosi se certe iscrizioni siano in latino con affioramenti celtici o in gallico spennellato di latino. Problema mal posto secondo Terracini, dato che negli scriventi "non vigeva più (...) il sentimento che si trattasse di due lingue opposte, come si oppongono l'una all'altra due lingue straniere": nella cultura galloromana l'avvicinamento dei due sistemi è la conseguenza, non la causa, dello scambio di culture. Il caso del latino, lingua di civilizzazione, è ancora diverso, in quanto la lingua colta non morì del tutto, ma si ritirò verso gli strati superiori e si irrigidì in un'entità "superletteraria" comune alle varianti romanze. Di qui, da una parte la disarmonia stilistica di certe iscrizioni in latino tardo, che farciscono la pedante crosta linguistica di innumerevoli spropositi, "come di un povero diavolo costretto a ricoprire le proprie nudità drappeggiandosi in un vecchio vestito troppo lungo e troppo grande per la sua persona"; dall'altra la vitalità linguistica degli scrittori cristiani, che sentono rivoluzionaria la terminologia volgare e barbarica, in asse con una rusticità che era un valore per la tradizione retorica cristiana (un vanto l'essere un "pauper spiritus").
Nella varia fenomenologia del cambio linguistico Terracini coglie una costante: l'intervento di una specie di traduzione mentale nel momento in cui una lingua nuova si impone. A partire dall'impostazione generale di cui sopra, il secondo capitolo affronta "Il problema della traduzione" in un intreccio difficile ma conversevole tra punto di vista linguistico e prospettiva stilistica, con una duplice atten-zione alla socialità del linguaggio e all'irripetibilità del singolo atto creativo. La traduzione nasce da una distanza culturale, è un caso speciale di cambio linguistico, un fatto di bilinguismo nel quale l'individuo traduttore deve crearsi una personale "grammatica" differenziale. Per chi lavora il traduttore, questo cambiavalute del linguaggio? Per tutti, risponde lo studioso, anche se gli sono grati soltanto i pochi consapevoli che le lingue vivono della fatica di Sisifo del traspositore e che, se la lingua ricevente in una sua particolare fase necessita di sviluppo culturale, la traduzione potrà dare un contributo di grande portata sociale e regalare perfino novità terminologiche (affascinanti gli esempi della Bibbia nella "Vulgata" di san Gerolamo e del "De locutionibus" di sant'Agostino). Quali scogli non superabili può incontrare un traduttore? Per esempio quelli di valori morfosintattici inesistenti nell'idioma di arrivo (è il caso della traduzione di Platone in inglese a opera di Jowett), cui consegue quello che Terracini con Ortega y Gasset chiama "il silenzio della lingua". Ma l'opera traduttoria è un'interpretazione e come tale ha le sue risorse e astuzie: il bravo traduttore può trasporre certi valori formali di un testo con un sistema di equivalenze accettabili ed efficaci in un'altra lingua, in modo da suscitare almeno il desiderio dell'originale e far percepire "una eco di poesia".
Il terzo capitolo, "Lingue e cultura", riassume alla luce di fondamenti filosofici le tematiche dei primi due: non a caso esso risulta il più rielaborato in funzione dell'edizione italiana. Terracini fa appello a una deriva teorica che da Vico e Humboldt arriva a Croce, impostando dialetticamente il rapporto tra soggettività del parlante, ossia atto, e oggettività della struttura linguistica, cioè prodotto. Gli esempi, tratti dall'etimologia e dalla "biografia" delle parole, dalla lettura di una carta di atlante linguistico, che è "l'istantanea di un mondo colto in pieno movimento", dimostrano quanto spesso si dimentica: che Terracini è stato in Italia il pioniere della sociolinguistica.
In garbata polemica con le forme risorgenti di positivismo, l'autore indaga e ragiona su alcune caratteristiche generali della lingua. Che sono: il tradizionalismo, ossia il supporto non meccanico tra la forma mentale dei parlanti che hanno promosso un dato sistema e l'inerzialità del medesimo di fronte a innovazioni culturali; il problema del cambio linguistico come regno del discontinuo e però anche delle equivalenze o della convivenza temporanea tra forme innovative e forme conservative; il rapporto natura-cultura, cioè la dialettica di scambi come motore dello sviluppo culturale di un idioma; l'aspetto agonistico che questa dialettica inscena perennemente; il contributo della lingua scritta all'uscita dai limiti della soggettività individuale e alla presenza di coscienza generale (non si parla mai come si scrive, ricorda l'autore); la conseguente definizione di una lingua colta, in quanto luogo teorico e storico della libera scelta "stilistica" all'interno della norma; infine il rapporto tra lingua e dialetto, basato sul concetto di prestigio o meglio di autoconsapevolezza da parte del focolaio di espansione nei confronti di una variante che diviene di uso svalutato e parziale nella coscienza dei parlanti.
Terracini, per la sua concezione dialogica e perciò conflittuale del linguaggio, appare profeta: con riferimento al risorgere nell'Europa d'oggi di particolarismi linguistici e alla dominanza internazionale dell'inglese, cioè a una situazione che a molti osservatori ricorda l'Età di mezzo, chiude le proprie riflessioni con questa domanda: "O forse l'umanità si avvia verso uno stato normale di bilinguismo distinguendo di nuovo tra una 'lingua colta' universale e il 'volgare' particolare, come nel medioevo?". Sono domande e considerazioni degli anni cinquanta, ma di assoluta attualità.

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