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Prima di tutto sono capitato per caso in questa pagina di un libro che già poasseggo e quindi arrivo ben tardi ad una recensione, non la mia che non lo è e non lo potrebbe essere data la scarsità dei "mezzi", ma a quella dell'Indice e di Luzzi, non tanto e non solo per il giudizio mi sembra un po' di sospensione ma soprattutto per la forma... A chi parla Luzzi? A chi intende rivolgersi su di un portale "mercantile" per quanto di nobile mercanzia. Non dovrebbe comportarsi come se si trovasse su una rivista specializzata trimestrale o nel blog letterario di Luporini? Sembra il solito esercizio di stile di una critica che ha da tempo ormai abdicato alla sua funzione di guida, di medium tra il letterato di professione e i lettori. Perché quel lessico? Perché quella sintassi involuta, perché l'uso raffinato degli infiniti mezzi sofistici di chi deve far saltare il messaggio sulla testa di parecchie migliaia di suocere perché le malinconiche 50 ... 100 (?) nuore intendano. Il libro (ormai introvabile! ...) è un atto d'amore "a caldo" di Mengaldo. È programmatico, non mente sul contenuto. Mette insieme appunto cose diverse e di epoche diverse. Cose che mettono in luce anche gl'innamoramenti e se volete, le bizze di un autore a cui non viene perdonato "il conflitto d'interessi" del critico che convive col poeta, ma capace comunque di deliziosi giochi poetici come il "Bestiario" di "Piccolo Zoo" pieno di colori allitteranti o la spassosa "Prima Poesia televisiva contro l'estremismo" e come non ricordare l'impagabile, tenero, gioco ritmico nell'Epigramma "A Rossana R.". Questo libro non è sicuramente paragonabile alla compattezza di opere come "Paesaggio con serpente" oppure al bellissimo microcosmo di "Composita Solvantur" ma rappresenta per me, un godibile complemento in attesa (dopo tante meno meritate uscite!) di un MERIDIANO della POESIA di FORTINI!
Recensioni
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recensione di Luzzi, G., L'Indice 1997, n. 9
C'è da continuare a chiedersi se sia effettivamente lecito dividere, nell'opera in versi di Fortini, i momenti alti da quelli stanchi, quelli ispirati e "autentici" da altri abilitati alla distensione o all'addestramento. Occorre non dimenticare mai che in quella particolare poetica del progetto e della costante infiltrazione mentale (e morale) nell'agire immaginativo c'è un posto paritetico per la reinvenzione e il riuso, il "d'après", e per l'animosità satirica, o quella che Pier Vincenzo Mengaldo, curatore peritissimo ma anche affettuoso di questa preziosa raccolta postuma, definisce "sentenza, persuasione o intimazione", dietro l'ostinata tendenza di Fortini a "non lasciar respiro né agli altri né a se stesso". Al limite tutto, nell'agire poetico di Fortini, è giustificato non tanto alla luce degli esiti estetici (sui quali pesa una sorta di condanna d'autore all'indifferenza), quanto a partire dal progetto, da un progetto che ragiona, ordina, difende: criterio di valore potrà essere, allora, unicamente l'attivazione logica e occasionata di questo progetto non occasionale, frutto di un incontro tra esperienza del mondo (e anche, in questi spesso balenanti versi, esperienza del corpo e dei corpi) e laboratorio.
Mengaldo, dall'interno delle carte postume del poeta, già legate per decisione autoriale a un destino di disciplina post mortem, sfila opportunamente dei percorsi, come dire "costruisce" il libro riuscendo a conciliare un oggettivo simulacro di cronologie con lo snodarsi attitudinale dei generi convenzionali: un nucleo lirico, poi un nucleo gnomico che anche si intreccia talvolta con l'investimento traduttorio o con la poesia applicata, come è il caso di quei "versi" di conforto fatti e rifatti (e in quale orizzonte, privato e pubblico, di date: 1968, 1971, 1990, 1994) "Sull'aria della "Internazionale"", con i quali la silloge viene chiusa.Ad aprire queste "Poesie inedite" sono infatti due testi giovanili di astratta e raggiante religiosità che si potrebbe definire betocchiana, ma via via rinveniamo, spesso fulminee, le vestigia del Fortini per così dire vulgato.
Si tratterà allora di riscoprire i germi, particolarmente attivi nel decennio dopo il '45, del dibattito sartriano e generale sul perché e per chi la letteratura, con un'incursione ("Che queste parole siano scritte è necessario") entro il teso motivo dell'inutilità, e contemporaneamente della necessità, dello scrivere; oppure, ma con esiti certamente più deboli, talune allegorie con cadenze sonorizzanti che potrebbero far pensare (e i presumibilmente tardi versi "A mia moglie" lo confermerebbero) all'attenzione per un Eliot poco frequentato.Ma si tratterà talvolta di veri e propri epiced", come quello, afflitto e perentorio, "Per Simone de B.", o quello più visionario per un Vittorini riaffacciato alla memoria e riprofilato con l'evidente chiamata in causa stilistica (" âElio!', chiamavo.Non dormiva, era al tavolo. La voce che mi dava...") di Sereni. In queste chiamate in solidarietà respira più di un sentimento di appartenenza generazionale (ma anche, diciamolo, quell'aria così tipica di casta, quel recinto eletto di consaguineità ideologiche e intellettuali), da intendersi temporalmente come una discussione in pubblico sul "che fare" una volta giunti al nodo dei limiti del mandato degli intellettuali.
Con più gusto e freschezza, perciò, si potranno leggere - sempre sul piano di quelle consanguineità o repellenze - alcuni mirabili epigrammi dei momenti più alti de "L'ospite ingrato": segnalo, tra i giocosi, quello diretto in lingua spagnola a Segre su Machado e quello rivolto a Cases, spregiudicatamente costruito su una coppia di alessandrini rimati in lingua tedesca che Mengaldo vede acutamente in un clima "post-crepuscolare". E segnalo alcune traduzioni rimaste nel cassetto, severe e ossute per lo più, dentro quell'ossessione di regolamenti con la ridondanza (e con l'"Es" che la genera) che è, essa stessa, principio ed epifenomeno di una poetica invernale, mentalizzata, infiltrata però di tenerezze improvvise: all'altezza, come si supponeva all'inizio, e per ragioni interne, delle qualità progettualmente più accreditate. E, evidentemente, "pour cause".
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