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Anno edizione: 2015
Anno edizione: 2020
L'ultimo lavoro di Roberto Esposito si dimostra "classicamente" fedele all'impostazione di una filosofia intesa come "proprio tempo appreso nel pensiero". È l'identità - anche se "detta in molti modi" - l'idolo al quale l'epoca presente consacra la propria fede e i propri riti sacrificali. Dal mito di un corpo integro e prestante, raggiunto grazie a lunghe e pazienti "ascesi muscolari", passando per l'ideale di una piena e "sana" realizzazione del Sé, da costruirsi erigendo barriere contro la sofferenza e l'alterità, fino alle salvifiche visioni di luoghi ripuliti da ogni contaminazione esterna, ciò che si rimuove è l'antinomica costituzione di ogni prassi identitaria; ciò che si afferma è la strenua volontà di negare il negativo.
Cogliere le dinamiche di questa "strategia immunitaria" che invade ogni ambito della realtà è ciò che si propone Immunitas, il cui primo grande merito è quello di non fermarsi a un'analisi concettuale confinata all'ambito della filosofia politica, ma di estendere l'indagine al diritto, alla teologia, all'antropologia filosofica, sino ad addentrasi nelle zone della biologia e dell'immunologia. Uno sconfinamento, questo effettuato da Esposito, né presuntuoso né ingenuo, ma reso sicuro dalla convinzione che il cosiddetto paradigma immunitario sia davvero la cifra del nostro presente. L'autore si fa pertanto continuatore del grande lavoro foucaultiano sulla biopolitica: su quel potere che ha assunto a proprio oggetto la vita nel suo significato anche e soprattutto biologico. Affinché la popolazione possa diventare oggetto di pratica biopolitica, la "nuda vita" deve diventare il criterio ultimo del potere democratico. Ecco perché, negli ultimi due secoli, il processo di medicalizzazione ha investito l'intero campo dell'interazione sociale; ecco perché gli apparati di sicurezza delle società contemporanee stanno diventando ipertrofici, superando di gran lunga le richieste giustificate da un effettivo livello di rischio. Più vasto è il bisogno di protezione, più facile sarà accendere il dispositivo ad ampio raggio della legittimazione obbediente.
L'"ontologia del presente" che emerge dalle pagine di Esposito focalizza sulla conservazione della vita - individuale e collettiva - quell'orizzonte di senso unitario verso cui convergono le diverse regioni e ragioni del reale. Preservare la vita è diventato infatti l'ideale regolativo di un'intera visione del mondo; poco importa se per conseguire l'obbiettivo occorre svuotare la vita stessa di ogni qualificazione ulteriore. Una vita senza qualità può diventare il paradossale risultato di una strategia immunitaria che protegge la vita negandola; che la conserva, cioè, iniettandole secondo i protocolli dell'immunologia tradizionale una quantità non del tutto letale di quello stesso "male" da cui deve difendersi; che la riduce, insomma, preventivamente a niente affinché possa resistere, il più a lungo possibile, nella sua lotta contro il niente.
Questa dialettica non è tuttavia caratteristica esclusiva della nostra contemporaneità "bio-politica": è stata più o meno nascostamente all'opera nei contesti culturali egemonici dell'intera tradizione. Esposito ricostruisce alcuni nodi salienti nei quali si è resa particolarmente visibile la traccia dell'operazione immunitaria, la quale, se consiste nell'allontanare un male attraverso il suo inglobamento preliminare, è letteralmente riconducibile a quel gesto di chiusura - analizzato in precedenza dall'autore in Communitas (Einaudi, 1998) - che vorrebbe esonerare dal munus del cum, da quell'essere-in-comune delle finitezze, costitutivo di un mondo di esseri singolari e plurali. Attraverso Walter Benjamin, Simone Weil, René Girard, ma ancor più, paradossalmente, grazie a Niklas Luhmann, viene messo in luce il doppio e contraddittorio movimento della costruzione di un diritto che deve immunizzare dalla violenza tramite l'introiezione della violenza stessa nel proprio apparato. Non diverso è ritenuto l'impianto che sorregge alcune figure centrali della teologia: dal katéchon alla teodicea, i termini chiave del pensiero teologico mostrano non solo l'imprescindibile connessione di male e bene, ma il bisogno stesso del bene di derivare geneticamente dal male. La conclusione a cui sembra giungere ogni dialettica, e ogni retorica, immunitaria è sempre la stessa: affinché la comunità - ogni comunità - possa resistere al rischio entropico che la minaccia - e col quale in ultima istanza coincide - essa va preventivamente sterilizzata nei confronti del suo stesso contenuto relazionale. Ciò che rimane di comune è ciò che contraddice la "verità negativa" della comunità stessa, perché ciò che resta in comune non è altro che la somma delle reciproche "privatezze": quelle isole di privacy, potremmo aggiungere, i cui confini invalicabili ci mettono spesso di fronte a effetti distruttivi.
La parte più originale e suggestiva del libro è forse quella in cui Esposito tenta una vera e propria ermeneutica di alcuni risultati delle scienze biomediche. Non mi riferisco solo alle pagine dedicate all'analisi degli stereotipi utilizzati dalla biologia e dall'immunologia per descrivere il funzionamento del sistema immunitario, ritratto sempre come un esercito armato in lotta con un nemico esterno mortale. Ma penso anche alle pagine in cui i testi di Alfred Tauber e alcune recenti scoperte sul comportamento del sistema immunitario vengono accostati, nell'analisi, a riflessioni che interpretano il corpo non come un dato immutabile, ma come il risultato di un'interazione con l'ambiente e con la tecnologia. Il cyborg e il trapianto rimandano infatti all'immagine di un sistema immunitario che, per eccesso di identità, può impazzire e implodere, e che per garantire una "vita buona" deve imparare a deporre le armi, a reagire in maniera "accogliente" all'estraneo, perché solo dal contagio può ricevere la salvezza.
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