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Bassotuba non c'è - Paolo Nori - copertina
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Bassotuba non c'è

Descrizione


Arriva "Bassotuba non c'è" e si ride. Con gusto, con rabbia anche. E la generazione della prolungata adolescenza, dei giovani fino a trent'anni e oltre, condannati a un perenne precariato emotivo e lavorativo, viene disintegrata, nebulizzata da un'esplosione atomica. Perché l'avventura personale di Learco Ferrari, protagonista di questo libro, nell'apparente autobiografismo della prima persona singolare disegna in realtà una concitata, picaresca epopea, dove il nichilismo di una generazione e di una società viene ferocemente fatto a pezzi in nome di una esigenza di autenticità che è il ritmo profondo e segreto di questo libro-rivelazione, che a un anno dal lancio con un piccolo editore viene riproposto a un pubblico più ampio.
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Dettagli

2000
29 febbraio 2000
9788806154134

Valutazioni e recensioni

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Recensioni: 3/5
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Giuseppe
Recensioni: 5/5

"Io sono quello che non ce la faccio". Questo è l'incipit di questo gioiellino di Paolo Nori. Un libro che lessi anni fa, adorandolo, e che dopo averlo riletto a distanza di tempo trovo ancora bellissimo. Un mio cult personale.

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massimo
Recensioni: 1/5

Che fatica leggere questo volumetto, eppure me l'avevano caldamente consigliato. L'idea del personaggio era pure originale, ma andava sviluppata in modo meno angoscioso. Forse non mi sono sintonizzato bene con questo libro, comunque non lo consiglierei.

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Luca
Recensioni: 1/5

Non mi e` piaciuto per niente, non mi ha fatto ne` ridere, ne` sorridere. L'unica cosa interessante puo` essere l'esperimento linguistico, nulla di piu`. 7 euro buttati. Peccato

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Recensioni

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Voce della critica









Cortellessa, Andrea, Sul vuoto. Il lamento di ci• che non c'Š,
Pincio, Tommaso, Lo spazio sfinito, Fanucci, 2000
Frasca, Gabriele, Lime, Einaudi , 1995
Scarpa, Tiziano, Cos'Š questo fracasso? Alfabeto e intemperanze, Einaudi , 2000
Nori, Paolo, Bassotuba non c'Š, Einaudi , 2000
Frasca, Gabriele, La scimmia di Dio. L'emozione della guerra mediale, costa & nolan , 1996
Bugaro, Romolo, Il venditore di libri usati di fantascienza, Rizzoli , 2000
Battig, Simone, Sul nulla, Theoria, 1999
segnalato in rassegna bibliografica di Cortellessa, A. L'Indice del 2000, n. 07

Come mai lo spazio è sfinito? C'è una generazione di scrittori che negli ultimi anni ha preso a tematizzare una dimensione, quella del Vuoto, certo non nuova all'immaginario letterario; ma che oggi è come se si fosse deciso di affrontare di petto (nulla conta, naturalmente, che sia per definizione impossibile). Come dice "Neal Cassady" a "Jack Kerouac" - due dei personaggi dello Spazio sfinito, di Tommaso Pincio, uscito nella collana "AvantPop" di Fanucci -, quando questi ha accettato l'impiego in orbita solitaria per la Coca Cola Inc.: "tu e il Vuoto finalmente soli, uno di fronte all'altro per mettere in chiaro ogni cosa". Fortunatamente, ben poco si metterà in chiaro; ma le rêveries del personaggio di Kerouac - isolato nella sua cellula di miele lanciata nello spazio - si iscrivono con forza, d'ora in poi, in una storia della figurazione malinconica di fine millennio.
Piace farla iniziare, questa storia, una trentina d'anni fa: con una certa scena del 2001 di Stanley Kubrick. Da mesi è in volo verso Giove l'astronave inviata per indagare sui misteriosi messaggi giunti sulla Luna. La abitano, vigili, solo due cosmonauti, sempre assistiti dal finora fedele computer di bordo hal 9000. Gli altri membri dell'equipaggio sono in animazione sospesa. Uno dei due astronauti è ripreso mentre fa jogging lungo la rampa del corpo centrale dell'astronave: un grande anello la cui rotazione simula la gravità. Corre in avanti ma in realtà il suo percorso è ciclico, anulare - teoricamente infinito. È il giorno del suo compleanno: così hal proietta per lui su uno schermo gli auguri preregistrati dalla famiglia a mesi, e miliardi di chilometri, di distanza. Nessuna parola. Solo la musica dolcemente kitsch di un adagio di Kha∞aturjan.
Quando arriva questa scena, ogni volta che si rivede 2001, si stringe tutto il rattrappibile: reazione pavloviana che rende difficile spiegare cosa ci sia di tanto struggente . C'è la solitudine, certo; la fredda e insieme pungente abolizione della felicità, e della stessa aspirazione alla felicità, che ogni missione che ci accolliamo comporta. Ma il punto è un altro. L'uomo sull'astronave è diviso dal Vuoto assoluto solo da un sottile diaframma metallico. Ma pensare quel Vuoto in silenziosa attesa all'esterno non può che richiamare l'infinitamente più piccolo Vuoto interno alla nave: quello che lui insensatamente percorre di corsa - senza mai arrivare da Nessuna Parte. Quella scatola, poi, ne contiene un'altra: perché il Vuoto della nave da qualcuno è abitato, in realtà - da lui stesso, cioè. Ma allora è dato sospettare che sia Vuota pure quell'altra, minuscola scatola: e che siano tre i Vuoti (quello dello Spazio, quello della Nave, quello del Corpo), separati l'uno dall'altro da insignificanti diaframmi.
Il suo motto, questa generazione lo può rubare a una poesia di Gabriele Frasca: "giunto al frigo l'aprì, non c'era molto, / solo l'austerità delle lamiere / d'alluminio, riempì d'acqua un bicchiere, / restò a guardarlo, ed insipido il volto / galleggiò un po', poi si mise in ascolto, / niente, ovviamente, poteva sedere / ora, tranquillo, frugarsi, vedere / dentro, più dentro, ecco, non c'era molto". Quello che ci annienta è l'essere ormai giunti a toccare con mano il Niente che ci abita - il "solido Nulla" di Leopardi. Lo spazio è sfinito, infatti, perché abitato dal Vuoto. Strutturalmente insidiato, in ogni sua minima parte, dal Nulla. Quello che al Kerouac di Pincio - turbato dall'assoluta assenza di stelle nel "piano nerocosmo specchiante" di là dall'oblò - si manifesta con uno strano rumore, "il Mugolio del Tutto". Il lamento interminabile di ciò che non esiste. In 2001 l'altro astronauta - quello che prosegue la sua Odissea - alla fine incontrerà Qualcosa. Ma io sto con l'astronauta malinconico - quello che corre in circolo, quello al quale viene spietatamente negata ogni Trascendenza. Se non c'è nessuna Meta è perché Dio - contrariamente a quanto diceva Einstein - è proprio Colui Che Gioca A Dadi.
Uno dei motti ironicamente gnomici che punteggiano Lo spazio sfinito recita così: "Le donne sono portate alla sparizione". Si veda la Teoria delle aureole, doloroso punctum nel recente Cos'è questo fracasso? di Tiziano Scarpa (cfr. "L'Indice", 2000, n. 6). Come in un vecchio Hitchcock, The Lady è, semplicemente, colei che Vanishes: la donna che non si trova di Leopardi - quella con cui si sogna di "fare all'amore col telescopio" (nell'autocommento alla canzone Alla sua Donna): la Rosina perduta di Delfini o la Bassotuba - che naturalmente non c'è - del suo nipotino Paolo Nori (cfr. "L'Indice", 2000, n. 5). Neoplatonismo? Esistenzialismo, forse (nuovo désir d'être sartriano)? Solo in negativo. La nostra epoca - ce l'hanno insegnato il Baudrillard dello Scambio simbolico e la morte e il Virilio dell'Estetica della sparizione - è quella della derealizzazione. Le vicende della Storia hanno decretato la Morte della Realtà. Ma, più che di un "delitto perfetto" (Baudrillard), si ha il sospetto che si sia trattato di un suicidio. Le Cose, Sfinite, non ce l'hanno fatta più a Essere. A noi restano solo i loro simulacri: gli specchi con i quali ci confonde e ci inganna la Scimmia di Dio, cattivo demiurgo gnostico che macchina sapiente le leve della falsificazione mediale. In quest'estinzione del reale, ultima e postrema forma di realismo è allora, forse, quella che rappresenta le superfici specchianti (come la bocca di Marylin nello Spazio sfinito): gli Schermi lucenti che, nell'avvolgere il Nulla, ci rimandano insolenti l'inganno più irridente, la più intollerabile delle immagini. La nostra.
Di questo Realismo della Derealizzazione si capisce come parametri fondanti non possano essere né il Rispecchiamento lukácsiano né la Negazione adorniana. Il nitore figurale dell'immagine (come nell'apparente quotidianità di certo Magritte tardo, o di tanta parte della produzione di Hopper) si sposa alla coscienza acuta di un elemento sfuggente, e al limite enigmatico, della Realtà rappresentata. Ossia precisamente alla sua qualità residuale, fantasmatica, irrigidita in calco di se stessa. Ogni Descrizione sarà Descrizione di una Descrizione; mentre l'anelata Realtà si allontana indefinitamente nella copia della copia di se stessa. Penso ai recenti romanzi "vuoti" di autori come il Romolo Bugaro del Venditore di libri usati di fantascienza, o il Simone Battig dell'emblematico Sul nulla (cfr. "L'Indice", 2000, n. 4): per i quali vale la definizione (di Marco Belpoliti, su "Alias" dello scorso 18 marzo) di "scrittori a bassissima definizione", "che ottengono il massimo del potenziale narrativo ricorrendo al minimo, sino al limite dell'elisione, dell'atonale o del silenzio".
C'è una trappola, naturalmente. Tutto questo rammenta l'estetica sentimentale del primo Romanticismo: il vuoto ci addolora, sì, ma questo dolore si può capovolgere in piacere algolagnico, in funzione di un nuovo incanto, di una nuova stupefazione (ciò che farebbe il gioco della Scimmia). È la capriola cara ai mistici del Nulla, ai virtuosi della teologia negativa: dove l'annihilatio è premessa e condizione dello spossessamento rituale. A questo pericolo lo scrittore può rispondere nel modo più antico, e insieme sempre nuovo: cioè inventando una lingua - che vuol dire un pezzo di realtà, seppur personale. Come fa Pincio esponendo la sua lingua "bianca" e senza alcuna marca contrastiva (al punto che qualcuno, al suo apparire, disse malevolmente - senza capire che aveva colto la vera novità di questo scrittore - che sembrava la lingua di una traduzione: certo, la traduzione di un testo anteriore che però non c'è) "al gelo dell'inverno, così che un sottile strato di ghiaccio composto di minutissimi granuli biancastri, la galaverna, coprisse tutto". Dentro quel freddo scorre inapparente un brivido caldo, "sempre sul punto di liquefare il racconto". È proprio così: lo sa chiunque abbia sentito almeno in un'occasione la pelle del volto indurirsi a bassissima temperatura. Viene da piangere; e se solo si osa farlo la pelle fa male fino a che sembra volersi spaccare, addirittura. Quel dolore è il segno che è venuto il momento di volare. Finalmente liberi nel Vuoto.



Nori, Paolo, Le cose non sono le cose, Fernandel, 1999
Nori, Paolo, Bassotuba non c'Š, Einaudi , 2000
recensioni di Cortellessa, A. L'Indice del 2000, n. 05

Bisogna pensare a questa prosa come a una macchina. Non una barocca apparecchiatura illusionistica, un fastoso ordigno teatrale; bensì qualcosa come la Due Cavalli scalcagnata che accompagna l'io narrante di Paolo Nori, "Learco Ferrari", nei suoi spostamenti lungo la via Emilia, a cercare un sorriso accattivante che lo aiuti a scacciare il pensiero pungente di "Bassotuba", la tipa che l'ha lasciato per un "sociologo, un allievo di Vattimo"; o a procacciare una scrittura per la scalcinata band di amici, i Bogoncelli, che hanno scoperto come il pubblico apprezzi, più della loro musica scalcinata, il modo che hanno di recitare, fra un pezzo e l'altro, racconti, "monologhi di animali", poesie "rovinate". Come quella Due Cavalli, questa prosa all'inizio stenta a mettersi in moto; ha la batteria a terra; la devi parcheggiare in discesa, la sera, per avere qualche speranza la mattina dopo; e c'è sempre il rischio che il motore si ingolfi o, come si dice, "batta in testa": che ti lasci per strada sul più bello, a bestemmiare nella polvere. Ma se acquista velocità ti prende e non ti lascia più.
Dice la leggenda che a Nori la Due Cavalli abbia finito "davvero" per prendere fuoco, l'anno scorso, poco prima del "Ricercare" di Reggio Emilia che l'ha lanciato; e mentre un tam tam sempre più insistente faceva rimbalzare il suo nome, mentre i critici si contendevano le copie del suo primo libro, Le cose non sono le cose (ora in ristampa da Fernandel), mentre la collana "Vox" diretta da Luigi Bernardi e Alessandra Gambetti per DeriveApprodi si accaparrava il secondo libro, Bassotuba non c'è, mentre si profilavano all'orizzonte Repetti&Cesari, gli editors di "Stile Libero" visti attentissimi nella Sala degli Specchi del Teatro Valli di Reggio; dice la leggenda che tutto questo, proprio sul più bello, Nori se lo sia vissuto da un letto d'ospedale. Se non è vera è ben trovata - perché rinvia alla caratteristica più evidente delle avventure di Learco Ferrari: il loro ricalcare estremamente da vicino le coordinate dell'esistenza (per quel poco di pubblico che se ne sa, per quel molto di privato che se ne favoleggia) del suo inventore. Tanto che non di "romanzi" bisognerebbe parlare, forse, ma - come nelle prove più recenti di scrittori di altra generazione come Antonio Moresco e Michele Mari - di "prosa d'invenzione biografica". Quella cioè che dal vero si discosta quel tanto e non più; e che naturalmente si arrovella proprio su quel quasi. Non a caso la fanzine di Nori e degli altri Bogoncelli (che figurano fotografati in copertina a Le cose non sono le cose) si chiama "Distrazioni della realtà": le cose non sono esattamente le cose, insomma. E allora: Learco Ferrari, come Paolo Nori, è di Parma (lo è moltissimo), è simpatizzante anarchico, e di mestieri ne fa due, con ritmo irregolare e sincopato - il magazziniere e il traduttore di testi "di servizio" (manualistica ecc.) -, l'uno in concorrenza con l'altro e insieme, coalizzati, in catastrofica concorrenza con l'unica cosa che, a Learco come a Paolo, interessi veramente: la scrittura. Perché lui è quello che si dichiara, all'inizio di Bassotuba non c'è, un "martire della letteratura": "Ho scritto un romanzo che è piaciuto molto a due editori (...) Ti chiamiamo entro fine luglio, mi han detto. Oggi è l'otto di agosto e sono qui in casa che aspetto. Non succede niente. Questo niente mi ammazza. Oppure no".
Qui, praticamente, tutto il plot. Non solo di Bassotuba, ma anche di Le cose non sono le cose. I due testi implodono infatti nel perimetro brevissimo dell'appartamento stipato di libri di Learco, o al massimo sul selciato dei centri storici, sull'asfalto livido delle periferie, nella provincia emiliana, coatti a un eterno presente - o meglio a un eterno passato prossimo, che ancor meglio rende questo senso di continua sospensione, di perpetua, inconcludente eccitazione. Una condizione di naufraga allegria: che, in mancanza di ulteriori dettagli su quanto preceda la microscopica tranche de vie qui millimetrata con cadenza da ossessivo journal intime, dà vita a un paradossale picaresco reticente ("Che io ne ho viste tante, nella mia vita, che quello che può inventarsi uno sceneggiatore hollywoodiano mi fa solo ridere").
Molta parte della critica, all'apparire di Bassotuba, ha insistito sulla particolare sonorità del dialogato di Nori, sottolineando gli echi dal comico "basso" (appunto) di una linea emiliana (Delfini Zavattini Malerba, e poi più da vicino Celati e Cavazzoni): quella cioè che ha regalato essenzialmente, alla koiné narrativa italiana, un parlato non immediatamente naturalistico bensì de-automatizzato e antimeccanico: sincopato aereo fantasioso. Inevitabile in questo contesto il rinvio al jazz (a quello "scrivere bop" di Kerouac fatto proprio da un'altra scrittrice che ha lavorato proprio a de-automatizzare il parlato gergale degli esordi, cioè Silvia Ballestra). E allora Bassotuba non è solo la storia di un autore perduto, il vorticare della lingua intorno a un'improvvisa, catastrofica assenza (si rivà alla Rosina perduta del grande Delfini); né è solo un omaggio a Cavazzoni (ringraziato in Le cose non sono le cose), alla memorabile "Vaporiera" del Poema dei lunatici. Rinvia anche, forse, a una tradizione jazz sottilmente differente dal bop, quella west coaster (la via Emilia non è del resto, cantava qualcuno, quella che porta al nostro West?) del primo cool '48-50: quello della Tuba Band, cioè, nella quale per la prima volta si sentì l'inconfondibile timbro del giovane Miles Davis: una "sonorità velata e lieve, senza vibrato, un lirismo intenso e assorto, un gusto per le frasi semplici e statiche, costruite su poche note, una predilezione per il registro medio dello strumento" (Arrigo Polillo, Jazz, Mondadori, 1995). E infatti Learco Ferrari, nei Bogoncelli, suona la tromba (anche se al modo "rovinato" che si immagina).
Poche note, certo, anche se "suonate" benissimo. Eppure ce ne dice, di cose, Nori: per esempio sulle pratiche disumanizzanti del lavoro "flessibile" in epoca postindustriale, sulle nevrosi di un sempre più diffuso proletariato colto (le scadenze di consegna delle traduzioni che si accavallano l'una sull'altra, il tempo che collassa su se stesso, che si contingenta in assai poco gioiose sincopi coatte: "Io sono stanco, anzi stanchissimo. La vita moderna ha dei ritmi e delle pretese che tenerci dietro, io non ce la faccio"). Ma la profonda, sottile malinconia che, di là dal comico di superficie, non fa dimenticare questa scrittura - una malinconia ronzante, sordinata, "velata e lieve, senza vibrato": quella che in Le cose non sono le cose si chiama "radiodown" - si accanisce di preferenza su un'altra "disgrazia" di Learco. Cioè proprio sul suo essere uno scrittore (se è vero almeno che, come ha scritto una volta Cavazzoni, "un testo letterario che si rispetti nasce in genere da qualche disgrazia; o da una condizione un po' disgraziata").
Se in Bassotuba non c'è Learco vive una condizione di disagio, infatti, non è tanto per le croniche ristrettezze economiche in cui versa. Già ha l'abitudine di conversare con la gatta (che si chiama naturalmente "Paolo"), ma ha preso pure a essere visitato da due spiriti-guida: uno malevolo (che continua a ripetergli "Sei una merda! Sei una grandissima merda che non vali niente!") e uno benevolo (che promette di sottoporre il caso letterario di Learco al "consesso dei Principi Critici Riuniti"). Ma al di là di questa parodica psicomachia resta una condizione abitata, della testa di Learco ("Allora faccio i miei giri, la banca, le poste, l'affitto (...) e nella testa ho dei pensieri che mi chiudono gli occhi, che non riesco a vedere la gente, con questi pensieri che girano per la mia testa, che mi parlo, mi parlo e non serve a niente"), che non promette nulla di buono. Tanto che, verso la fine, gli capita spesso di mettersi "a piangere come una vite tagliata". E Learco, esistenzialista pop, è davvero un po' come la "vite storta" del proverbio tedesco ricordato da Ludwig Binswanger in Tre forme di esistenza mancata per descrivere la condizione patologica della stramberia: moto ostinato che si avvolge su se stesso, che non riesce ad andare avanti, che contro un qualche ostacolo si torce, si accartoccia. A fare resistenza, qui, è precisamente quella "disgrazia" chiamata letteratura: che lo fa girare a vuoto, che ne fa un "martire". Bassotuba comincia così: "Io sono quello che non ce la faccio".
Ora però, in questa bizzarra sovrapposizione di letteratura e vita reale, la parabola ha preso una piega imprevista. È andata a finire che Learco-Paolo, invece, è precisamente quello che "ce la fa" - il suo libro è pubblicato da un editore importante, il suo minaccia di diventare il caso letterario dell'anno -, proprio come nei suoi più esaltati plazer. Era a ben vedere profetico, insomma, il titolo dello sfortunato libro di Learco, Gli ultimi giri di Learco Ferrari. Ma finito questo girare a vuoto, questo virtuosistico falso movimento, dove può dirigersi, ora, Learco-Paolo? Riuscirà la sua "vite" ad andare avanti, finalmente?

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Paolo Nori

1963, Parma

Scrittore e traduttore italiano. Ha lavorato come ragioniere in Algeria, Iraq e Francia. Laureato in letteratura russa, ha lavorato in Francia per tre anni per un'impresa edile, e poi come traduttore dal russo e dal francese. Ha pubblicato nel febbraio del 1999 per Fernandel (Ravenna) Le cose non sono le cose e, nel maggio del 1999, per Derive Approdi (Roma) Bassotuba non c'è, ristampato nel marzo del 2000 da Einaudi Stile Libero. Collabora con Il con Il Caffè letterario, bimestrale di letteratura ed immagini. Del 2008 sono Mi compro una gilera e Baltica 9. Ha tradotto e curato l'antologia degli scritti di Daniil Charms Disastri (Einaudi), l'edizione dei classici di Feltrinelli di Un eroe dei nostri tempi di Lermontov e delle Umili prose di Puškin. Per UTET pubblica...

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