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Copertina cartonata ombrata lievemente. Pagine ingiallite lievemente. paperback 491 9788806162252 Buono (Good) .
In un gustosissimo libro recente sulla mitografia di Elisabetta I attraverso i secoli - gli encomi, le satire, i calcoli politici, le manipolazioni ideologiche che costruiscono nel tempo l'immagine di un personaggio storico - Michael Dobson distingue una serie di generi letterari in cui tale esercizio può prendere forma, dall'estremo della ricerca documentaria a quello della libera attività immaginativa: la raccolta di documenti, la storia specialistica, la storia romanzata (dove le lacune della ricerca vengono occasionalmente riempite dall'inventiva dell'autore), il romanzo storico, la ricostruzione fantastica con i suoi più o meno moderni alleati, il teatro e il cinema in costume. A quale di queste categorie appartiene dunque l'opera di Greenblatt? La domanda è importante per evitare i fraintendimenti di chi si aspetta una cosa e ne riceve un'altra, e alla fine magari si arrabbia; la domanda è anche importante per un pubblico come quello italiano, meno abituato del pubblico di lingua inglese a una chiara distinzione fra i generi letterari che trova sul mercato, e quindi a una fruizione in sintonia con le loro convenzioni.
Il confronto è, naturalmente, una questione di numeri: il bacino di consumo di un libro in lingua inglese non è neanche lontanamente paragonabile con quello di lingua italiana, se si pensa che le poesie di Maya Angelou vendono milioni di copie all'anno, e che il libro di Greenblatt era in vista, al momento della pubblicazione, non solo in pile su pile nelle librerie sparse per Piccadilly o Broadway, ma anche in mano a un numero illimitato di commuters nelle metropolitane di New York, Londra, Los Angeles, Sydney, Toronto ecc.: un pubblico che per le sue letture ha a disposizione una gamma notevole di proposte, e che sa fin dall'inizio quello che può chiedere a una biografia di Shakespeare, cioè pochissimo e nello stesso tempo moltissimo, a seconda di quale angolazione si scelga per osservare il suo paradosso costitutivo: di Shakespeare non si sa quasi niente, ma si può tentare di sapere molto facendo funzionare la fantasia come ha fatto lui nel ricostruire le vite dei suoi re e regine. E il paradosso viene risolto proprio ricorrendo a quella vasta gamma di generi e sottogeneri, dalla biografia accademica che sta in precario equilibrio su un quasi-vuoto documentario, e che serve esclusivamente al lettore professionale, fino alla dichiarata ricostruzione fantastica, che mira al lettore comune o comunissimo, senza risparmiargli bufale straordinarie come quella che faceva del Bardo un gentleman gioviale tutto roastbeef e omaggi alle signore, o un insulare ringhioso e un po' militarista in stile Lega britannica, o un maestro dello spionaggio cattolico in un'Inghilterra infelicemente divorziata da Roma, e via inventando. E non dimentichiamo i prodotti dell'editoria più prestigiosa, che sfruttano l'uno e l'altro corno del dilemma traendo spunto insieme dai pochi fatti accertabili e da un accanito lavoro di interpretazione delle opere dell'autore, lavoro sempre soggettivo e quindi aperto all'arbitrio, per quanto aggiornato possa essere: un ultimissimo esemplare della categoria è ora in libreria, 560 pagine un po' presuntuosamente intitolate dall'autore Peter Ackroyd e dall'editore Chatto & Windus Shakespeare: la biografia , in aperta sfida al successo dell'impresa Greenblatt-Norton-Cape di un anno fa: pagine accolte dagli specialisti (per esempio Stanley Wells sull'"Observer", 11 settembre 2005) con l'approvazione di solito riservata ai dilettanti che meritano rispetto per il loro coraggio incosciente.
Come vuole la nemesi del mercato, le pile del libro di Ackroyd stanno ora al posto di quelle del libro di Greenblatt, anche se quest'ultimo è lo specialista certamente più influente su tutta l'ultima generazione di studiosi, e il più accreditato a parlare dell'argomento, come autore di una decina di libri sulla prima modernità inglese, e oggetto a sua volta di numerosi studi da parte di colleghi americani e europei. A ben guardare, la strada della storia basata sui testi letterari in prevalenza rispetto ai documenti d'archivio era stata aperta da tutta una corrente critica da lui stesso inaugurata all'inizio degli anni ottanta, e poi tumultuosamente seguita negli Stati Uniti e in Inghilterra sotto il titolo di Nuovo storicismo (cui lui preferiva quello per noi più enigmatico e per ora intraducibile di cultural poetics ). Le novità di questa corrente si rifacevano ai teorici francesi, Barthes e Foucault in primis, e a un antropologo americano, Clifford Geertz, per rinnegare l'antica soggezione del testo nei confronti del contesto - o l'interpretazione letteraria che si adegua volta a volta ai significati ispirati dalla ricerca storica - ed affermare la potenzialità di significato autonomamente sviluppata dalla scrittura. Le regole e convenzioni della scrittura diventavano regole e convenzioni di tutta una cultura, modello e falsariga della produzione di senso. Il senso della cultura era reperibile in qualsiasi testo di quella cultura, senza che fosse definibile una vera e propria gerarchia di valore fra i testi, una volta che se ne fossero esplicitati i principi di produzione e di ricezione. Il costrutto retorico dei documenti diventava importante quanto i fatti a cui si riferivano, e la loro "verità" diveniva variabile e contingente; per accertarla di volta in volta, un dramma teatrale, nella sua forma specialmente, non era inferiore a un trattato, a una cronaca ecc. Il modo di intendere i comportamenti propri di una civiltà restava legato indissolubilmente al modo in cui l'avevano rappresentata i suoi protagonisti, ma anche, attraverso il tempo, tutti i suoi interpreti. La pratica discorsiva della rappresentazione diventava la matrice fondamentale della significazione e, con essa, dell'indagine scientifica. La realtà politica, gli eventi ordinari, gli spettacoli, la stessa personalità individuale erano materie di rappresentazione, e quindi parti di un discorso emanante e controllabile da parte del potere. Contro l'esaltazione umanistica delle capacità dell'individuo si accampava una visione non sovrana, non unitaria, non coerente, non conciliata del soggetto. La strada si apriva a una considerazione della letteratura come autorappresentazione di questo soggetto diviso, conteso fra i vari modelli discorsivi che parlano attraverso di lui. Gli stessi generi storico-critici venivano costitutivamente votati a una continua revisione. Non ultima, la biografia si apriva all'integrazione tra fatti accertati e ipotesi interpretative.
Chi scrive è stato testimone - a dire il vero, con un po' di apprensione - dei primi passi di Greenblatt in questa direzione: quando si trattava di commissionare il capitolo su Shakespeare per la Storia della civiltà letteraria inglese pubblicata dalla Utet a metà degli anni novanta, pensai di dividere il compito fra lo studioso americano e il compianto Agostino Lombardo, in rappresentanza di due scuole critiche diverse, ma interessate entrambe allo sviluppo storico della letteratura. Il capitolo che ricevetti da Berkeley, dove Greenblatt allora insegnava, mi sorprese perché iniziava con la ricostruzione dell'ambiente, e soprattutto degli spettacoli che il drammaturgo poteva aver visto nelle strade della natia Stratford da ragazzo, e che potevano spiegare il suo attaccamento al teatro. La prova che li avesse davvero visti stava nell'infallibile senso dello spettacolo che avrebbe sviluppato in seguito. Mi pareva questo un esercizio inconsueto per quel critico, ma non tenevo conto di quanto le premesse teoriche da cui muoveva potevano giustificare il suo modo di procedere. E il medesimo esercizio sta alla base di questo nuovo Shakespeare , il cui architrave sta nella formula "possiamo supporre che", con le varianti "è probabile che", "come è stato ipotizzato" ecc.
Intendiamoci: Greenblatt è ferratissimo nella documentazione, potendo contare su una profonda conoscenza del periodo storico nei suoi minimi eventi, e su una puntuale familiarità con l'intero canone del suo autore (ne ha curato di recente una voluminosa edizione). E non gli è difficile fare interagire la competenza storica con la competenza dei testi, né proporre alla fine un quadro caleidoscopico dell'intera cultura rinascimentale inglese attraverso la lente dei drammi shakespeariani - un quadro molto mosso, il risultato di un andirivieni continuo fra occasioni differenti e spesso inaspettate perché tutte prodotte dall'accostamento di elementi, immagini, concetti uniti dalla intuizione soggettiva. Per esempio, la secolare questione di quale fede religiosa assegnare a Shakespeare: era un protestante come il pubblico per il quale scriveva, un cattolico o cripto-cattolico come suo padre, un anti-puritano come potrebbe far pensare l'antipatia che riversa su alcuni suoi personaggi, un agnostico convinto, un indifferente come lo voleva l'anticlericalismo ottocentesco? Tutte queste ipotesi sono plausibili, e trovano sostegno in questo passo o in quell'altro delle opere. Ma si noti bene: nella realtà l'una escludeva assolutamente l'altra. Per essere cattolici, o per essere atei come si dichiarava l'altro grande drammaturgo del tempo, Christopher Marlowe, nell'Inghilterra di Elisabetta si perdeva la vita. Ma Shakespeare era molto più complesso e cauto del suo contemporaneo, e per definirne la fede, o la mancanza della stessa, Greenblatt deve infilzare una serie di "forse" nella trattazione parallela di dati storici - la repressione del cattolicesimo nell'area di Stratford, che arrivò molto vicina a lui e ai suoi - e di dati testuali - i riferimenti alla teologia, ai sacramenti, ai santi ecc. - per concludere che ogni singolo articolo di fede, protestante o cattolica che fosse, veniva da lui mescolato in modo inscindibile con le altre fonti della sua ispirazione, ed egregiamente sfruttato a fini poetici - e dunque lontano da qualsiasi posizione intellettuale definitiva.
Nulla di fatto, dunque, sul piano che siamo abituati a chiamare della "verità" storica: il testo e la sua resa estetica restano dominanti, e soprattutto enigmatici, polisemici, pieni di quell'"ambiguità" che è sugli scudi della critica da almeno settant'anni, e che ancora ne definisce il paradigma più qualificato. Non diversamente gli studi più aggiornati si comportano di fronte alle questioni della sessualità, dell'ideologia, della politica, della morale di Shakespeare, e di altri paragonabili autori. Al centro c'è sempre il "maestro della doppia coscienza" che qui Greenblatt propone a proposito della religione, e che è l'eroe senza tempo della critica contemporanea, moltiplicato in maestro della coscienza multipla dagli innumerevoli prodotti dell'attuale industria shakespeariana.
Un altro esempio, questa volta di un testo chiamato a documentare un altro testo: che cosa pensava veramente Shakespeare degli ebrei, avendo così memorabilmente ritratto la figura di Shylock? Prevaleva in lui l'antisemitismo della mitologia popolare e della propaganda ecclesiastica, o la pietà di chi sa riconoscere i disastri umani della persecuzione, o magari la rivendicazione di una parità di diritto per tutti gli uomini? Tutti questi temi sono presenti nel testo del Mercante di Venezia , che diventa così sfuggente e illimitatamente interpretabile, com'è evidente dalle mille incarnazioni di Shylock attraverso il tempo - dal torvo capitalista persecutore dei candidi mercanti cristiani alla dolente vittima della discriminazione razziale. E fuori del testo non abbiamo nulla, salvo l'aria molto brutta che tirava per gli ebrei nell'Inghilterra di Elisabetta, dove erano sconosciuti nella vita comune, ma conosciutissimi come mitico oggetto di condanna. Come fare? La soluzione di Greenblatt è di chiamare in causa un dramma storico che non c'entra se non metaforicamente, in quanto rappresenta i londinesi che manifestano perché gli stranieri siano espulsi dal regno, e Tommaso Moro che li esorta a immaginarsi il destino cui la deportazione avrebbe condannato quei poveri disgraziati. Sono parole di pietà così sentita, così efficace, da far pensare a una profonda coscienza della sofferenza che colpisce tutti gli esiliati dalla propria terra, come era successo agli ebrei nel 1290, sotto il regno di Edoardo I. Al di là della complessità del personaggio Shylock, possiamo pensare che il suo autore assegnasse questo riconoscimento anche a un intero popolo perseguitato, allora e dopo. Più oltre Greenblatt non può andare.
Shakespeare: un corpo che è un corpus di testi, una vita creata e ricreata dal linguaggio, e un linguaggio che si evolve. Tale è oggi la strada per scrivere una "storia" comunque illuminante, di una personalità che ci parla quasi esclusivamente attraverso le sue fantastiche, sconnesse, ibride, polisemiche opere. La nostra domanda iniziale, sul genere letterario in cui collocare questa biografia, conduce dunque alla commistione fra lo storico e il creativo. Non molto diversamente si è comportato del resto il cinema recente, raccontando le vite di Shakespeare, Elisabetta e quant'altro - ma rovesciando, rispetto al lavoro di Greenblatt, l'ordine delle priorità fra documentazione e attualizzazione delle loro figure.
Una nota alla traduzione italiana, volonterosa ma inadeguata, soprattutto quando si tratta di cultura rinascimentale: un mason non è un "massone" (andiamo, nel Cinquecento!) ma un muratore; The Arraignment of Paris è il giudizio di Paride e non di "Parigi"; Ithamore non è una schiava ma uno schiavo; rioter non è "riottoso" ma rivoltoso; officers non sono "ufficiali" ma funzionari; mechanic non è "meccanico" ma manovale; to show one's mettle non è "mostrare fegato" ma tempra; una "collusione" ma è una colluttazione ( struggle ); "circoscrivere" non è aggirare ( circumvent ); si dice cronache e non "croniche", ecc. Una volta gli editori ci stavano più attenti.
Franco Marenco
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