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Corpuscolo - Alessandro Fo - copertina
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Descrizione


Il meglio della produzione poetica di Alessandro Fo, compresa tra il 1987 e il 2001. Filo conduttore dell'intera silloge è il tono improntato a una garbata levità, con una propensione narrativa, quasi diaristica. Il colto citazionismo, pur attraversando buona parte dei componimenti, non ha mai il sopravvento: le malinconie e le tenerezze della sua poesia sono attente alla "maliosa antologia del vivere quotidiano". Sono versi dove conflagrano allegria e tristezza, in cui l'pparente semplicità dell'incedere non rinuncia a raffinatezze e a far sedimentare minimi apologhi sull'esistenza, prendendo spunto dalle statuine in terracotta del presepe o da umili oggetti della quotidianità.
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Dettagli

2004
24 agosto 2004
XI-131 p., Brossura
9788806162689

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Bruna Ramella
Recensioni: 4/5

Bello.Veramente: raffinato,delicato,evocativo. Talvolta misterioso, con quella sua natura - a me pare - lievemente androgina. Crea benessere e dà la sensazione di aver compreso quali sono le cose importanti della vita.

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Voce della critica

Penso che tu sia sconcertata, dice a una giovane e avvenente giornalista il figlio della scrittrice Elizabeth Costello nel libro omonimo di J. M. Coetzee, "dal mistero del divino nell'umano. Tu sai che c'è qualcosa di speciale in mia madre - che è poi quello che ti attira in lei -, però quando la incontri si rivela per quello che è: una vecchia signora come tante altre". Cosa ci sta dicendo Coetzee con quella sua aria dimessa? Che la poesia partecipa di una scintilla del divino, che le parole di Orfeo hanno il dono divino di indurre a "tendere l'orecchio verso gli estremi confini della propria esistenza" (Hermann Broch, La morte di Virgilio): questa idea di poesia è imprescindibile dalla poesia di Alessandro Fo, viatico per chi apra il suo ultimo libretto Corpuscolo.

"Scintilla del divino" è una frase che Fo cita da uno dei suoi antenati dichiarati, il poeta e slavista Ripellino, dal quale l'autore deriva una malinconia tutta teatrale, da vecchio palcoscenico impolverato (Ripellino: "torna giovane. Mi vestirò di pervinca, / balleremo una intera estate / uno struggente valzer di Glinka, / come in vaporose stagioni passate (...) Molti ti pensano con malinconia. E io ti aspetto. / Siamo ancora vivi e ci assilla un bisogno / di gioia, di calore, di affetto"). Questa malinconia teatrale, che ha per suo rovescio la tenerezza ma anche le più esilaranti trovate, si innesta nelle poesie di Fo con l'alta malinconia classica virgiliana delle Bucoliche. La poesia, secondo l'autore, può trasformare in grazia, metabolizzandolo, anche un grande dolore (vedi Purché ci resti Mantova, 2002 e Il cieco e la luna, 2003): Virgilio, dice, costruisce intorno a noi un minuscolo teatro, inventa una terra fuori dal mondo, un luogo non-luogo che può ospitare anche realtà perdute, cui dà il nome di Arcadia, e che, senza descrivere, descrive "per solo cumulo di particolari": standosene, com'è noto, all'ombra del faggio.

Mi pare che anche questa piccola ma densa antologia di poesie, presentata con affettuosa intelligenza da Maurizio Bettini, costruisca un mondo suo che emerge per accumulo di particolari: sono le cose, e i dettagli delle cose guardate al telescopio che fanno un'altra realtà, "un'altra realtà, diversa dalla storia, / la mia realtà, differente e enorme", come dice la poesia programmatica Forme passate: "Io, nell'assedio di una realtà irreale / vengo a afferrarmi con forza a un dettaglio". È il cuore della tradizione, anche novecentesca: per Nabokov ogni opera d'arte è la creazione di un mondo nuovo, e compito del lettore è di studiare questo mondo nuovo più meticolosamente possibile (Lezioni di letteratura).

Lo spazio non consente ahimè questa lettura meticolosa. Ma vediamo la poesia Così che non pare che apre la prima sezione Le cose parlano, dove all'incerta luce degli scaffali appare "il lume degli antichi scrittori", che dicono quella malinconia che è fatta anche di dolore rovesciato in allegria. Parlano, le cose: "Di Alessandro Fo dicevano: egli si pose / un giorno come davanti a un atlante / e vi studiò meticoloso le città, l'orografia e i fiumi uno per uno; distante / quanto bastasse ad avere bene a fuoco / quella schematica ma variopinta realtà. Ed ascoltò le persone, e noi cose".

È una dichiarazione di poetica (di attenzione e insieme distacco) affidata alle cose, che vengono intrepide al proscenio e "dicono", anch'esse in cerca di un pubblico, con movenze teatrali (Fo è anche autore di teatro, oltre che noto latinista). O ancora, sono esse stesse destinate ad accogliere un'accorata, scherzosa e lieta-dolorosa apostrofe del poeta stesso, memore del bellissimo sonetto petrarchesco "O cameretta che per me fosti un porto...", vedi L'autore, accingendosi a partire, con un grosso carico...: "Libri, che vi ho portato a spasso per il mondo / e, per concorsi, fra Roma e Cremona; / che io pregavo per il trenta e lode; / ma non salvaste, poi, mia madre da morte".

Veniamo a com'è fatto questo libretto colto e raffinato, e rovesciato in semplicità al tempo stesso. Sul "come" c'è un secondo imprescindibile preambolo: Fo è un conoscitore e un amante, un giocatore delle forme chiuse come pochi. Madrigali e sonetti e ballate, difficilissime canzoni-sestina, e ancora versi a scalino e poesie a scala destinate a minimi temi del vivere di oggi - ma anche la nonchalance del verso libero - tentano di ricomporre il cosmo nella forma, di salvarci dall'entropia e dal lezzo informe delle cose che si disgregano: con titoli da quadri di un'esposizione cecoviani, alla Cavafis, dove, come in Cavafis, quello che avvince è il tono della voce. Anche quando il poeta si fa lettore, per rifriggere, avvicinandolo vertiginosamente, l'incanto di un classico come Petrarca letto in treno (Leggendo in treno poesie): "stanze, aure, ore, fresche correnti / di Valle Chiusa, verdi erbe obbedienti / all'acqua dolce che vi sparge a onde"): alta cucina, essendo la cucina assai vicina alla poesia, come insegna Montale.

Nella seconda parte il teatrino si apre con i pastori del presepe, ma sposati alla tradizione bucolica virgiliana: i personaggi acquistano un loro tenero e umilmente sacro spessore, forse più estraneo all'indole di qualche lettore, che in tal caso prediligerà in questo gruppo il moderno e perplesso autoritratto "nel traffico intollerabile della città serale", sub tegmine fagi (L'uomo sotto l'albero): "Seduto sul giornale spiegato / per non sporcare il vestito". E che si rallegrerà in seguito dell'azzardo fantaisiste con cui attacca la terza parte, con un inedito "bozzastico" (acrostico ottenuto da interventi a correzione di refusi) che fa perno su bozze e nozze pizze e bizze..., finché, nel finale Album di progetti, che precede il Congedo, prediligerà la bellissima piccola serie Carta da balene. Qui l'odio-amore-fissazione di Achab per la balena bianca (che chiude il libro con un miracolo che non vogliamo anticipare) è riportato al mistero quotidiano del cuore di ognuno di noi: con in coda un ironico sgambetto a banali solennità: "Grazie al favore della notte, confidenze / fra il vecchio capitano e la balena. / E osservazioni: / non reversibilità / di certe aspirazioni: a senso unico / la caccia, univoco lo sforzo, contrastato / dall'antimateria di ciò che non c'è, / quando lei disse uscendo di scena: / "Achab, non sono stata / mai innamorata di te".

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