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Anno edizione: 2005
Anno edizione: 2007
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Ancora una volta mi ritrovo a non essere d'accordo con alcune recensioni. E' stato il mio incontro con Orengo e da qui ho iniziato ad apprezzare i suoi personaggi, velatamente descritti, con il loro mondo di solitudine inquieta. Uno spiraglio però si intravvede ed è la luce che in ogni vita va inseguita, anche nella nostra.
Percorrendo le vecchie strade del sale, i sentieri odorosi di erbe e i labirinti delle passioni umane, si incontra il cartello “Nico Orengo”. Lo ho seguito, per ritrovarmi questa volta nelle Langhe, e nel suo cuore Alba, tra vigne e aromi. E ho incontrato Daniel il sommelier, tessitore suo malgrado della trama del racconto; l’austera Amalia che pretende prove di coraggio in cambio di baci e intimità; l’enigmatico Eta Beta che irrompe nella storia dei suoi personaggi un po’ alla Hitchcock per spronarli all’azione; la vigna “La Ginotta”, premio ambito e sofferto, scrigno del passato e del futuro; e tanti altri. Inevitabile il paragone tra la sorsata di un ottimo Barolo e la lettura di Nico Orengo, entrambi da trattenere dentro di noi, in silenzio, per meglio identificarne i singoli componenti e indovinarne l’amalgama di sapori, il miscuglio, piacevole e disgustoso, di viole e liquirizia.
Mi sono piaciuti di più altri suoi romanzi, comunque anche questa volta Orengo dimostra di saper raccontare. Romanzo piacevole.
Recensioni
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Il nuovo romanzo di Nico Orengo inizia e finisce con due persone dialoganti. Non sono le stesse, ma introducono uno degli assi portanti della narrazione: la forma discorsiva, quanto dire l'incontro fra persone, vissuti, biografie. Basta voltar pagina perché la voce narrante - come sempre, un narratore eterodiegetico; ma con Orengo bisogna stare attenti alla facile o difficile narratologia - presenti il protagonista, che arriva carponi alla pensione-locanda Savona. Non è un precisamente un introibo solenne, ma è adatto al personaggio, il sommelier parigino Daniel Lorenzi, sceso in Italia, e nelle Langhe, per un corso di degustazione sui grandi di Francia.
L'uomo è inquieto: divorziato dalla moglie, ha la figlia Nicole che fugge da lui e dalla madre e alla quale i suoi amici trovano una comunità per la disintossicazione. È un uomo in fuga dal suo presente che, come ovvio, lo insegue e non gli dà tregua. Arrivato in Langa, Daniel trova Amalia, suo doppio femminile. Amalia è perseguitata dal ricordo del padre, morto una notte nella tenuta di famiglia mentre cercava lei che, ragazza, era uscita di casa senza il suo permesso. La Ginotta, cioè la tenuta di famiglia, viene per metà perduta al gioco dal fratello di Amalia, in apparenza un caratteriale, al limite della psicosi, attorno al quale gravita però gran parte dell'intreccio. Il resto è un intreccio montato con l'usuale destrezza e in più uno strumento cui Orengo ha abituato i suoi lettori: il coro di una comunità circoscritta e di piccole dimensioni, in cui anche i grandi problemi (lo stravolgimento del territorio, il paesaggio che muta senza cessa, la ricchezza improvvisa e difficile da gestire) diventano oggetto di chiacchiera davanti a uno o più bicchieri di vino o mentre si corre in tassì.
Perché in Di viole e liquirizia c'è anche un tassista, Luciano, che è un po' la coscienza critica di un gruppo che non vuol tanto saperne, né di coscienze né di critiche. Beve birra, in sfregio al vino divenuto ormai quasi un obbligo, critica tutto, è un grillo parlante. Sembrerebbe, fin qui, una variazione sulla messinscena ambientale con cui Orengo si è più volte confrontato in questi anni, trovando il suo esito forse più felice nella Curva del latte (Einaudi, 2002; cfr. "L'Indice", 2002, n. 4). Non è così. Tanto per cominciare, l'autore cambia teatro; l'amatissimo estremo Ponente ligure è quasi abbandonato e il trasferimento di fatti e personaggi nelle Langhe ha il sapore di una sfida. Orengo è intellettuale e uomo di lettere troppo navigato per ignorare che, ancora oggi, le Langhe evocano i nomi di Cesare Pavese e, più ancora, Beppe Fenoglio. Di Pavese e Fenoglio non è traccia visibile, sulla superficie di queste pagine. L'uno e l'altro, magari anche in compagnia di Mario Soldati, s'intravedono tuttavia, aggiornati al tempo presente, nella capacità di rappresentare un paesaggio umano e naturale in mutazione velocissima. Il tassista Luciano commenta: "Qui non si compra più niente. Nessuno vende. Chi ha la terra, se la tiene. Gli ultimi che l'han venduta, negli anni Settanta, per andare alla Fiat, han preso diciassette milioni all'ettaro. Oggi ne vale anche settecento, ottocento. Si guardi intorno: son tutti miliardari...".
Non è un trattato di economia politica, ma è il segno che Di viole e liquirizia mette un po' in disparte i toni da commedia leggera che innervavano molta produzione di Orengo e tratta da sociologo una contemporaneità che conosce molto bene. Se restano in piedi le strutture narrative che più gli sono congeniali - su tutte, il racconto di una comunità piccola e conchiusa, la vivacità del discorso diretto, che pochi in Italia padroneggiano come lui, i ritratti di donne dal fascino complesso e misterioso -, la novità di questo romanzo sta nell'intonazione. Nico Orengo lambisce qua e là il vaudeville e, malcelandosi dietro un paio di personaggi (oltre a Luciano, anche il bislacco, e forse incompiuto, scrittore e deus ex machina Eta Beta: senza dire, e anche questo è nuovo, di una voce narrante meno divagante che in altri romanzi), finalmente mette in gioco i suoi interessi e le sue passioni personali.
Pare superfluo aggiungere che, in un romanzo, sono piuttosto interessanti gli interrogativi che le risposte: e Orengo si guarda bene dal fornirle. Aggiunge invece, e questa è invece una conferma, la sua scrittura sinuosa e ambigua fin quasi alla sensualità e un gusto per il dettaglio che può ricordare certi fiamminghi: tanto i polifonisti come i pittori (ma in copertina fa bella mostra di sé un notevole Nicola De Maria, "uno che scrive poesie con le mani piene di colori"). Di viole e liquirizia non è un romanzo perfetto; il complicato trasferimento di Daniel a Nizza per andare a prendere la figlia ribelle non sembra del tutto necessario. È però un libro di tempra forte, asciutto e disincantato in tempi di recessione, economica non meno che culturale.
Giovanni Choukhadarian
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