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Anno edizione: 2007
Anno edizione: 2010
Anno edizione: 2023
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Con questo romanzo, con il suo stile a metà tra l'arcaico e il grottesco, Michele Mari riesce a creare personaggi e immagini che si sedimentano nella memoria. La narrazione si svolge all'interno dell'abitazione dei nonni del tredicenne Michelin, che intesse l'amicizia con il "mostro" Felice: per combattere la noia di giornate sempre uguali a sé stesse, il ragazzo si appassiona alla biografia di Felice che lo conduce nella storia e nella fantasia. "Oggi che so quanto male abbia fatto l'hegelismo all'umanità so che le storie più belle sono tutte fatte di ma e di se, soprattutto di se".
Un piccolo capolavoro del sempre stupefacente Mari! Una scrittura pregna, densa: superlativa!
Gran bel romanzo, nulla da eccepire, anche se non è al livello di "Di bestia in bestia", la qualità della prosa è come sempre impeccabile, come del resto l'atmosfera tessuta con maestria, l'unico appunto che mi sento d'azzardare, e questa è una costante in diverse sue opere, è che si ha l'impressione che manchi qualcosa, direi la pura sostanza, il fuoco sacro dell'invenzione, per carità pagine perfette, qualità narrativa ineccepibile, però come se fosse brillante all'esterno e grigia, vacua al suo interno, forse è solo un'impalpabile impressione, ma mi appare come un abbagliante esercizio stilistico e formale in cui manca il furore dell'illuminazione. In ogni modo ce ne fossero di autori in giro come Mari, un gigante in mezzo ad un oceano di nulla letterario.
Recensioni
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Il precedente romanzo di Mari (Tutto il ferro della torre Eiffel, Einaudi, 2002; cfr. "L'Indice", 2003, n. 1) si concludeva dopo aver seguito Walter Benjamin nei suoi vagabondaggi parigini con il sospirato ritrovamento dell'aura: "Una sostanza che sembrava madreperla fusa, iridescente e cangiante, con riflessi rosa e azzurrini e uno spolverio di pagliuzze dorate". La scia lasciata dallo sciogliersi dell'aura unisce nell'incipit del nuovo la Parigi del 1936 a un piccolo paese del varesotto, dove nel 1969 un contadino ha appena ucciso una lumaca e il "vischioso lucore" che fuoriesce dall'animale testimonia "la metamorfosi dell'immonda deiezione in splendida scaglia iridescente".
Quella lumaca dimidiata, poi, con la sua "sagoma più vicina alla balena che al serpente", con le formiche che subito la lavorano "come l'equipaggio della Pequod", riporta il lettore all'immaginario marinaresco della formazione letteraria di Mari (più avanti saranno evocati anche Ahab e il Nautilus, i quindici uomini sulla cassa del morto) e soprattutto alla declinazione in prima persona che Mari ne offrì con l'atmosfera sospesa e incantata della Stiva e l'abisso (Einaudi, 1992). Solo che qui l'atmosfera è ancora fantastica e misteriosa ("l'aura maledetta che si sprigionava dalla mia casa"), ma tutta tellurica non Il vecchio e il mare, ma "Il vecchio e la terra" potrebbe esserne il titolo e le fattezze ferine del protagonista fanno sì che la contrapposizione sia stavolta tra l'orda (delle lümàgh frances che, sostiene il vecchio, si nutrono di cadaveri e divorano la sua memoria) e l'orco: il fattore dei nonni, appunto, "l'uomo del verderame", uno dei tanti mostri non tutti cattivi che popolano da sempre l'esistenza del tredicenne Michelino ("perché altri che mi facessero compagnia, nella vita, non ne avevo").
Quest'omone taciturno e solitario Felice solo di nome ("l'è minga difficil dà i nomm, el difficil l'è faj diventà vera") non ha quasi più ricordi e dunque sembra non avere un passato ("si sapeva poi quand'era nato e dove? cos'aveva fatto prima di lavorare per noi? se aveva parenti?"). Proprio come la vecchia Flora che in Euridice aveva un cane (Einaudi, 1993) rappresentava l'anima stessa del paese dei nonni: "Di chi era figlia la Flora? Aveva ancora dei parenti? E quanti anni poteva avere?". Se Flora era Euridice, allora Felice non può che essere Orfeo: la rincorsa del suo passato in cui Michelino l'accompagna una discesa agli inferi. Dal verdemare al verderame, ciò che conta è la linea che divide il sopra dal sotto, e ciò che conta veramente è il sotto: il subconscio del mondo, dove le regole della razionalità non valgono più e si stratifica ab aterno il deposito della storia umana, il mito junghianamente inteso. Il nucleo archetipico, atavico, ossessivamente inamovibile dell'immaginario di Mari nasce da qui: dall'idea del sommerso e dell'abissale; dalla consistenza del magma che sta sotto alla crosta; dalla dimensione ctonia di cui partecipano quelle lumache rosse, messaggere dal mondo dei morti ("iin lur che manden sü i lümagh").
La lotta intentata da Michelino al rapido sfarinarsi della memoria di Felice si configura quindi come un rito di passaggio dall'infantile "l'ombroso" al paterno Lombroso: l'ingenuo tentativo di sconfiggere l'oscurità ctonia con la positiva luce della filologia. Stando all'autobiografia letteraria di Mari, infatti, Michelino aveva scoperto la filologia quattro anni prima, quando ad appena nove anni si era ritrovato "nella biblioteca della casa di campagna dei nonni" (Tu sanguinosa infanzia, Mondadori, 1997; cfr. "L'Indice", 1997, n. 4) a collazionare due traduzioni diverse della Freccia nera, proprio lo sceneggiato "in cui Loretta Goggi faceva finta di essere un maschio" che ora tiene i nonni attaccati alla tivù e lo lascia libero di svolgere le sue indagini. Se nel racconto del servizio militare la ratio filologica di Mari faceva da diga e compensazione all'assurda inutilità di quel mondo, dando vita alla Filologia dell'anfibio (Bompiani, 1995; cfr. "L'Indice", 1995, n. 6), qui il brulicare di elucubrazioni sulle lubriche secrezioni dei gasteropodi può essere tranquillamente classificato come "filologia della lumaca".
Uno dei problemi che si incontrano sempre nel recensire il romanziere Mari è proprio la sua consapevolezza da filologo, che tende a chiudere gli spazi in cui di solito si inserisce il discorso critico, riducendoli a interstizi. Una soluzione può essere, allora, lasciare la parola direttamente al Mari critico, seguendo una pista suggerita dallo stesso scrittore: "Il disegno, fatto sull'anta di un armadio con il gesso, di un coniglio impiccato", che rimanda all'impiccagione di un passero e poi di un bastoncino e poi di un gatto che ritmicamente si ripetono in Cosmo di Witold Gombrowicz. "Uno dei quattro o cinque libri più belli del Novecento" scrive Mari nel suo I demoni e la pasta sfoglia (Quiritta, 2004) perché in quelle pagine "letterariamente si svela, come nessun libro ha mai svelato, l'identità tra essere, pensare, nominare, agire ed essere agiti; o in altre parole l'identità di esistenza e consistenza".
Il Michelìn, dunque, non è solo l'alter ego del Mari eterno bambino ("se istintivamente dovessi dare una mia fotografia a qualcuno che me la chiede", confessava in un'intervista del '97, "mi verrebbe da dargli la fotografia di quando avevo dieci o quindici anni"), è anche l'adolescente "aristotelico-conandovliano Witold" (così si chiama il protagonista di Cosmo) "corroso da una febbre di collegamento e di significazione". E la mnemotecnica con cui soccorre le amnesie di Felice è una strategia tesa a cogliere l'inattingibile essenza delle cose che sfugge beffardamente alle parole: falce e martello appesi al muro per ricordare le salsicce mangiate alla festa dell'Unità ("solo un anno prima mio padre aveva esposto una cosa simile alla Triennale di Milano"), il museo dei memento come l'ennesimo tentativo di reificare la parola, sconfiggendo "il demone della desemantizzazione" e "la questione dell'arbitrarietà".
I nomi e le cose la letteratura e la vita, la lingua e il dialetto sono i due piani posti sopra e sotto la linea della superficie: l'etimo è la discesa alle radici che scava un cunicolo tra il cosmo e il soggiacente caos ("a giocare con le parole si finiva sempre così, nell'insensato"). Ecco perché il romanzo di Gombrowicz, con la sua "intuizione di una perfetta congruenza fra follia e struttura del mondo", rappresenta l'irripetibile soluzione alla dualità che ossessiona Mari fin dal suo esordio, il gotico Di bestia in bestia (Longanesi, 1989; cfr. "L'Indice", 1989, n. 9), che aveva per protagonisti i gemelli Osmoc e Osac ("mai fidarsi dei nomi, soprattutto quando siano anagrammi").
Giuseppe Antonelli
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