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Anno edizione: 2017
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Leggendo in copertina il nome di uno storico della lingua italiana del valore di Vittorio Coletti, si penserebbe che questa Introduzione all'opera italiana, nel suo corso Da Monteverdi a Puccini, sia un ulteriore contributo di letterato alla storia del melodramma dal punto di vista del libretto; sulle tracce, per ricordare solo alcuni, di Folena, Lavagetto, Baldacci, Pieri, Brizi, Gronda, Goldin, e quanti altri hanno approfondito e esteso la conoscenza del libretto operistico nella sua fenomenologia e funzionalità. Ma Coletti non è un librettologo, almeno in queste pagine non si presenta solo come tale; non vuole il suo lettore al tavolino a consultare libretti, ma più spesso lo pensa seduto in teatro, davanti allo spettacolo, cui allude con vivaci richiami ai suoi elementi musicali, verbali e gestuali. Coletti è qui soprattutto un intelligente e appassionato conoscitore di opere teatrali, rivelando un'invidiabile conoscenza anche dell'aspetto sonoro delle partiture: basta vedere l'appropriatezza dei rimandi al ruolo narrativo dell'orchestra o di singoli strumenti, essi pure personaggi, e naturalmente al canto nelle sue tipologie di registri e di articolazione.
Il libro segue due percorsi principali, uno sistematico e uno storico, intercomunicanti fra loro. A illustrare la particolare grammatica di un genere teatrale dove i fatti si "sentono" prima che se ne capiscano le parole, il saggio offre esempi sempre eloquenti; come il concertato del II atto dell'Attila verdiano dove si sommano le voci di cinque cantanti, Attila, Ezio, Foresto, Odabella, Uldino più il coro: ciascuno, in dialogo con altri o rimuginando fra sé, è portatore di riflessioni o disegni distinti, ma "solo l'insieme, espressione di smarrimento e sorpresa, comunica l'informazione necessaria, che le parole invece non consentono di percepire". Altro campo d'indagini fruttuose per determinare la peculiarità dell'opera in musica è l'esame della sua materia narrativa, per lo più derivata da drammi, commedie e romanzi; Metastasio a parte, osserva Coletti, "si direbbe che tutto preoccupato della messa a punto delle proprie regole specifiche, il melodramma italiano non abbia trovato il tempo per un'originale elaborazione di soggetti"; l'originalità è nel riposizionare trame e personaggi nella musica, cioè nel flusso congiunto d'invenzioni canore e strumentali.
Anche qui un esempio basta a illuminare la posizione morale dell'opera del Seicento: il divario che separa l'Ottavia, la tragedia erroneamente attribuita al Seneca tragico, dalla sua derivazione nell'Incoronazione di Poppea di Busenello e Monteverdi, dove unica legge è l'impulso ad amare e dove i valori sono distribuiti fra i personaggi nella misura in cui la rispettano: così la negatività di Nerone è fortemente attenuata e la moralità di Seneca sbeffeggiata: infatti, "l'Incoronazione rilegge l'Ottavia piegandola tutta verso l'esaltazione dell'amore, di cui celebra l'apoteosi nel discusso finale, quando Nerone e Poppea cantano il piacere di guardarsi, di baciarsi, di amarsi". E questa ingenua felicità del vivere, si badi, è celebrata in piena Controriforma, accanto a un teatro di parola tutto edificante: ma alla musica si può concedere tutto, o perché, in quanto trasfiguratrice della realtà, sta al di sopra di ogni regola, o perché, arte del sentimento e della passione, non mette conto caricarla di alcuna responsabilità etica.
Uno dei molti meriti del libro è la sensibilità moderna nella scelta delle citazioni dallo sfondo di lettere, prefazioni e trattati dei Quadrio, Muratori, Planelli, Algarotti; si veda in particolare il passo dal Trattato della musica scenica in cui Giovanni Battista Doni suggerisce che non tutte le parti dell'azione drammatica siano cantate, "ma quelle parti sole che sono più capaci di bella musica e che più convenevolmente si possono modulare": che è essenziale non solo all'indicazione locale di una distribuzione fra arie e recitativi, ma al precetto generale che non tutto va musicato con lo stesso grado d'intensità "lirica": regola che solo Wagner avrà la forza di sovvertire (e anche lui non sempre, non completamente) e che dopo di lui rimarrà senza conseguenze, se non nel solo Pelléas di Debussy. Altre acquisizioni importanti, in un libro fitto di spunti nuovi e acuti, è il riflesso sul melodramma romantico della lezione di Vittorio Alfieri ("l'unico tragediografo italiano ad aver cercato di adeguare la monumentalità dei problemi agitati e dei personaggi rappresentati a quella del linguaggio teatrale"), l'ordine armonioso del melodramma metastasiano, già garantito oltre ogni complicanza dalla simmetria delle musiche che lo sostengono, la particolare temporalità narrativa dell'opera buffa, l'avanzamento dell'opera dell'Ottocento sul terreno della verosimiglianza, fino a competere con il realismo del romanzo: dove però l'"inattualità della lingua" riconsegna ai territori del mitico e del favoloso quanto di più realistico e verisimile il nuovo teatro musicale aveva introdotto nelle scene. Così l'opera lirica dell'Ottocento italiano s'incarica di tenere accesa la fiammella della tragedia: travestendola da favola, e rendendola compatibile con la nuova sensibilità e accettabile al largo pubblico.
Ma sul destino dell'opera oggi, sull'attaccamento del pubblico attuale alle scene liriche, sono soprattutto da considerare le pagine finali: i grandi melodrammi, "liberamente interpretati sul piano registico, ma (perlopiù) fedelmente trascritti su quello testuale e musicale", costituiscono per Coletti "un caso straordinario di resistenza popolare all'antico"; sicché oggi "andare all'opera è come andare a un appuntamento con temi ed emozioni che la modernità (almeno quella più colta e avanzata) non concepisce più con tanta semplicità e in modo così diretto e affronta, semmai, di lato, con molta circospezione e attenta riflessione". Per cui il luogo comune dell'opera lirica come forma d'arte popolare, o nazionalpopolare, non esaurisce più la sua portata; dopo l'esasperazione della visività introdotta dal cinematografo e l'iperrealismo di altre forme di comunicazione immediata, l'opera lirica è oggi un caso limite di arte stilizzata: quindi, per le nuove generazioni, una forma artistica bisognosa di mediazioni storiche e culturali che ne illustrino proprietà e meccanismi, come ha saputo fare Coletti in questo bel libro.
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