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La porta del sole - Elias Khuri - copertina
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Descrizione


Un giovane medico al capezzale del suo padre spirituale, ormai in fin di vita. Di fronte alle finestre dell'ospedale si distende il campo profughi di Shatila, in Libano. Il vecchio militante in coma sognava di scrivere una storia senza inizio né fine, la storia del popolo palestinese. Una storia che ora, in una sorta di terapia, gli viene raccontata dal suo discepolo: la guerra civile in Libano, gli episodi significativi della sua vita e gli itinerari di un pugno di uomini e donne accerchiati dalla storia, a partire dall'espulsione dalla Galilea nel 1948. Attraverso il furore affabulante messo in atto per rianimare un corpo allo stato vegetativo, il narratore dà vita a un intero popolo, al suo esodo, a cinquant'anni di guerre.
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Dettagli

2004
495 p., Rilegato
9788806168674

Voce della critica

Una storia è tale quando se ne conosce la conclusione. E "solo le storie hanno un inizio, poiché nella vita il primo momento non esiste". Eppure non c'è storia che non sia piena di buchi, omissioni, non detti, reticenze, amnesie, rimozioni, semplici smagliature, apparenti contraddizioni. Il mestiere dello storyteller/narratore consiste proprio nel rimettere insieme, con gesti accurati e modesti, lembi scuciti, frammenti dispersi, dettagli a prima vista muti o insignificanti.

L'atto di narrazione-scrittura corrisponde, in altre parole, a far parlare il silenzio, colmare lacune, riavvicinare con mano ferma zone non più comunicanti, trame spezzate, linee interrotte, destini individuali smarriti nel labirinto geografico e temporale della grande storia, mantenendone la complessità e in qualche modo, paradossalmente, proprio l'incompletezza. Somiglia all'arte del restauratore, quella del narratore: il vuoto creato dal tempo nell'opera pittorica viene colmato da una tessitura paziente che permette di ricostituirne la continuità e dunque il senso. La scrittura interviene a ri-costruire dove c'è stata cancellazione, a raccordare dove c'è stata dispersione, a ricordare dove c'è stata negazione. Mai a giudicare o spiegare.

Lo prova, come pochi altri romanzi recenti hanno saputo fare con altrettanta febbrile determinazione, La porta del sole, del libanese Elias Khuri, giornalista, drammaturgo, romanziere e saggista, direttore del supplemento letterario del quotidiano di Beirut "al-Nahar", intellettuale impegnato. Oggetto di questo monumentale romanzo/saggio, che ha visto la luce nel 1998 dopo una gestazione di sette anni ed è oggi disponibile nella splendida traduzione italiana di Elisabetta Bartuli nonché nella torrenziale versione cinematografica diretta dal cineasta egiziano Yousry Nasrallah, è la storia collettiva del popolo palestinese, a partire dalla Nakba, la catastrofe del 1947-48, sino alla vigilia della seconda Intifada.

L'espediente narrativo scelto dall'autore per entrare nelle complesse vicissitudini storiche, politiche, sociali e umane dei palestinesi, un popolo da quasi sessant'anni costretto all'erranza, è la vocalizzazione per interposta persona della vicenda individuale di un combattente palestinese sigillato nel mutismo e nell'immobilità di un coma irreversibile. Ricoverato in un fatiscente ospedale del campo profughi di Shatíla più simile a un ospizio per vecchi che a un luogo di cura, Yúnis, leggendario eroe della resistenza palestinese, è accompagnato alla morte/liberazione dal quarantenne Khalíl, "medico provvisorio in un ospedale provvisorio in un paese provvisorio", che lo trattiene in vita accudendone il corpo come una madre farebbe con il figlio neonato e nutrendone lo spirito attraverso un monologo interiore pronunciato a voce alta, a tratti quasi urlato. Con tenera ostinazione Khalíl sfida il tempo sordo del coma attraverso un ininterrotto parlare che è insieme atto verbale e esercizio della memoria, ponendosi - inevitabile pensare alla Sheherazade delle Mille e una notte - come antagonista della morte, metafora evidente del silenzio e dell'oblio, della fine di tutto.

Per farlo, come sempre quando la voce narrante sceglie di porsi precisamente come "io", dunque con il carico della propria storia individuale e dei propri stratagemmi esistenziali, l'altro, l'interlocutore, va individuato con altrettanta limpidezza in un "tu" refrattario a fare da semplice specchio. Ed è lì, su quella resistenza del tu rappresentato da Yúnis, guerriero e figura paterna esemplare e tuttavia corpo che va ingloriosamente alla morte, che si stringe il complesso patto diegetico di questo romanzo della piena maturità narrativa di Elias Khuri. Finché c'è racconto, possibilità di racconto, sembra dire attraverso Khalíl l'autore, la storia non si pietrifica su se stessa e i morti, gli scomparsi, gli esclusi continuano a vivere accanto a noi, a chiedere redenzione.

Ecco allora che, nel romanzo, la coppia Yúnis/Khalíl si disgiunge duplicandosi nelle coppie Yúnis/Nahíla e Khalíl/Shams, protagoniste di due storie d'amore che la grande storia ha marchiato a fuoco, privandole della mitezza del quotidiano. Finita la guerra del 1947-48, Nahíla, andata sposa a quattordici anni, si ritrova cittadina israeliana in Galilea, mentre Yúnis, che ha scelto la via della resistenza armata, vive da rifugiato nel campo profughi di Shatíla in Libano. Il loro amore, da cui nasceranno sette figli, ha il furore della passione: rischiando ogni volta la vita, l'uomo attraversa clandestinamente la frontiera per incontrare la moglie nella grotta di Bàb al-shams, Porta del sole, in Galilea, terra bramata e persa, che fa tutt'uno con il corpo dell'amata, privato della quale un uomo muore.

Khalíl e Shams, che appartengono alla generazione successiva, sono nati e cresciuti nei campi profughi del Libano. Lui è un apprendista medico poco incline alla ragione delle armi, lei una fedayn che ha scelto la lotta armata anzitutto per affermare il proprio diritto alla libertà da un marito violento. Ardito ribaltamento di ruoli sessuali e sociali, di posizioni. Se Nahíla passa la vita ad aspettare il marito, ancorandolo attraverso il proprio corpo amante/materno alla terra di Palestina e confermandolo nella sua funzione di eroe e martire vivente, Shams si colloca piuttosto sul versante maschile, femminilizzando Khalíl, l'uomo che trattiene la morte con le parole, esperto di attese e abbandoni, il non guerriero che ha mutuato dalle donne l'arte duttile e dura della sopravvivenza, unica vera forma di resistenza.

Attorno a questi due nuclei centrali l'argomentazione monologante di Khalíl si apre a raccogliere e contenere una costellazione di storie secondarie, ma non minori, il racconto a più voci della terra di Palestina. Come se il vero protagonista di La porta del sole fosse un intero popolo deciso a raccontarsi da sé, mettendo al tempo stesso a tema la complessità dell'atto di narrazione - il rischio della retorica e dell'astrattezza ideologica, ma anche della semplice accumulazione e polverizzazione - e la potenziale inadeguatezza del linguaggio a tenere dietro a una storia che ha - come diceva Jean Genet - il "peso della realtà", la "pesantezza" aspra e bellissima dei "gesti concreti".

Nel romanzo di Khuri non c'è discorso sulla Palestina, bensì uno spazio che va colmandosi a poco a poco e mai in modo piano e lineare di racconti, esperienze, ricordi, della materia contraddittoria e intima delle storie personali, mai assolute, mai definitive, affidate come sono alle sabbie mobili dell'inconscio e dei suoi meccanismi. "Ogni volta che vi chiedo cos'è successo", scrive il narratore, e sembra di riascoltare l'Assia Djebar di L'amore, la guerra e il suo tentativo di raccogliere dalla voce delle donne la storia della guerra di liberazione algerina, "cominciate a mischiare i fatti senza alcuna logica, saltate da un mese all'altro e da un paese all'altro, come se il tempo si fosse fuso tra le pietre dei paesi distrutti. Mia nonna mi raccontava le storie come se le strappasse. Invece di metterle insieme, le faceva a pezzi, non ci ho mai capito niente. Non ho mai capito né come né perché il nostro paese è caduto".

Popolo "sospeso", né qui né là, perennemente altrove e in attesa, affidato alla memoria del corpo e della terra più che a qualsiasi dover essere politico, alla lettera "interrotto", i palestinesi narrati e narranti di La porta del sole, proprio perché concreti, locali, situati nella storia e nel paesaggio, si de-etnicizzano e diventano una metafora universale. E può capitare che una donna palestinese, Umm Hasan, levatrice nel campo di Shatíla, tornando in visita nel suo villaggio natale di Galilea, trovi ad accoglierla nella propria stessa casa un'ebrea di Beirut, come lei sradicata dalla sua terra, come lei divorata dalla nostalgia per il proprio paese. "Ti sto aspettando da un mucchio di tempo", la apostrofa in arabo l'ebrea che, nel trasferimento da Beirut alla Galilea, ha imparato l'ebraico, ma non ha dimenticato la lingua d'origine. E poi visitano insieme la casa. Umm Hasan vede il suo letto, il primo in cui ha dormito in vita sua. Oggi è l'ebrea a dormire "ogni notte con suo marito sullo stesso letto, nella stessa stanza, nella stessa casa, nello stesso paese". Eppure è Ella, l'ebrea, a disperarsi, scoprendo che Umm Hasan vive a Beirut, la città da cui è stata strappata bambina e che non ha mai smesso di rimpiangere: "Ascoltami, sorella, sono anch'io di Beirut... e mi sono ritrovata in questa landa desolata... Sono io che potrei mettermi a piangere. Va', sorella, va' via. Ridammi Beirut e prenditi tutta questa terra amputata".

La via alla riconciliazione tracciata da Khuri passa dal riconoscimento dei traumi subiti, i propri e quelli dell'altro. Negarli o rivendicare il primato della sofferenza è all'origine della guerra.

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