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Nel bosco - Elisa Biagini - copertina
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Descrizione


Elisa Biagini accompagna il lettore attraverso il bosco e gli chiede di sapersi perdere per potersi poi ritrovare. Il perdersi come condizione di stupore e di abbandono che permette a porte invisibili di aprirsi: un viaggio da fare in compagnia delle parole, con solo qualche sasso in tasca, come Gretel. In una sezione del libro i protagonisti sono solo apparentemente noti - Cappuccetto rosso, il lupo, la nonna -, in realtà sono profondamente cambiati (anche fisicamente); protagonista di un'altra sezione è un feto un po' speciale che racconta il proprio "farsi" e che già si interroga sul mondo. Una poesia caratterizzata da una costruzione più narrativa che lirica e da un'attenzione-ossessione per i corpi come sede di un'identità misteriosa, spesso non comprensibile con la sola ragione.
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Dettagli

2007
4 settembre 2007
130 p., Brossura
9788806179847

Voce della critica

Un bosco senza alberi – la parola "albero" manca del tutto – dà il titolo a questa seconda raccolta einaudiana di Elisa Biagini. I destini di Gretel (qui figlia unica), Cappuccetto, la nonna e il lupo sono quelli immobili dei personaggi delle favole: ripetono stereotipi lontani nella sfera del simbolico. Le favole sono perfette per un'avventura ai confini del gender, per un'esplorazione dei valori sociali dell'inconscio. Il cappuccio rosso è placenta, mestruazione, dipendenza rituale da un ruolo femminile confinato nel bosco, bandiera di protesta della donna eternamente bambina. La riscrittura delle favole, in particolare di quella di Cappuccetto, ha una solida tradizione nella poesia femminile anglo-americana (Anne Sexton, Angela Carter, Margaret Atwood, Olga Broumas, Louise Glück), al centro del lavoro di Elisa Biagini come traduttrice. Di queste scrittrici dell'abbandono a una soggettività tanto radicale (perché "salvata") quanto ancorata a una lingua fatta di oggetti, la poetessa fiorentina è stata una delle prime e più originali seguaci italiane, tanto che, nel testo che campeggia sulla copertina del libro, il verso "mi mangio la mia strada" traduzione di "I eat my way", tratto da La casa oscura di Sylvia Plath, suona più che allusivo, rivendicativo.
Con tali premesse, il bosco poteva diventare il teatro dello scontro con il lupo sociale, sotto le temibili spoglie del lupo psicoanalitico. Ma le fasi più cruente di questa lotta hanno già avuto luogo, e compete alla nuova generazione di scrittrici registrare lo spostamento del fronte tematico sulle posizioni di un militantismo meno marcatamente identitario. Il bosco è allora un bosco interiore, privo di cicatrici apparenti, il lupo è stato rimosso, interiorizzato. È un bosco anatomico in cui i rami corrispondono al fascio dei nervi ("i nervi / rampicanti verso / il fuori"), immagine già annunciata nella precedente raccolta, L'ospite (2004), sulla scorta delle impressionanti radiografie craniche dell'artista Ketty La Rocca: "il cervello / cittadella di radici e foglie". Gli alberi sono i nudi tronchi di una foresta di alberi sculture, alla Giuseppe Penone. Prevale inoltre una visione orientata verso il basso, concentrata sulla secrezione del sottobosco, il suo elemento più corporeo: muschio, erba, radici, funghi. È un terreno che assomiglia al suolo su cui giacciono, cadaveri di plastica, le bambole bellmeriane della sequenza fotografica Fairy Tales di Cindy Sherman.
Si insiste su alcuni dei probabili riferimenti alla cultura figurativa dell'autrice per capire come è costruito questo libro, il cui maggiore investimento risiede nel progetto. La disposizione seriale delle immagini/testo e la loro sintassi combinatoria prevalgono sull'interesse portato alle singole poesie, pezzi (non frammenti) di discorso, così che è pertinente considerare il libro nei termini oggettuali di una installazione. Sono frequenti presso i poeti delle ultime generazioni rinvii alle arti figurative. Si tratta non di uno sfondamento degli steccati tra i linguaggi di tipo neoavanguardista, ma di proposte per un rinnovamento della lingua della poesia a contatto con esperienze portatrici di innovazioni sensibili o comunque vicine a linguaggi più socialmente condivisi. Si pensi al rapporto poesia/fotografia in Marco Giovenale, o all'esposizione del corpo alla lingua delle immagini nelle coreografie verbali di Laura Pugno. Nel caso di Pugno si tratta però di un corpo sensuale, ricomponibile nel segno del desiderio e di una femminilità non eccessivamente alienata. In Nel bosco, la rinuncia alla ricomposizione del ritratto è radicale, tanto più forte se pensiamo alle brillanti autoscopie realizzate nel precedente L'ospite.
Di quegli stills perfetti, il travestimento della donna-bambina sotto le spoglie di Cappuccetto è una sorta di decostruzione il cui risultato (forzando una formula di Didi Huberman) è una donna-cliché, sequenza di scatti corrispondenti a stati temporali distinti (il feto, il neonato, la bambina). Le immagini sono montate con la musica delle cantilene, stranianti nursery rhymes (così importanti per Sylvia Plath), in uno studiato anti-petèl: "Bimba nella / placenta, bimba / sotto coperta, / nella corteccia / morbida di pelle, / indurita dal / bosco, rossa / come scottata, / rossa che nuoti nel / tuo sangue, / appena fatta, bimba / qui scodellata". La donna-bambina si configura come anti-feticcio: negazione di una certa immagine della donna nella sua maturità. Ciò significa il rigetto di un'autobiografia quale può scriversi oggi nell'ambito della poesia femminile intesa come confessional, custodia dei sentimenti, diario domestico. La crudeltà del soggetto, l'assenza di una dimensione affettiva da difendere contrasta così con la verticalità di parte della poesia femminile italiana di matrice ancora sostanzialmente lirica.
Un'ultima riflessione, di carattere linguistico. Nel libro si riscontra una forte rarefazione lessicale e grammaticale (a P. C. – Paul Celan – è dedicata la "poesia-poster" in apertura). Si consideri però l'esibizione dei nessi "come", "come di", quasi a sovvertimento di un tipico istituto della lirica pura, che, pur ricchissima di costruzioni analogiche, di tali nessi non si serve. La serialità del procedimento denuncia una ricercata grammaticalità di tipo "povero" (nel senso in cui parliamo di arte povera), evidente in un altro uso sintattico spinto quasi a saturazione, quello della preposizione "di" a surrogare una serie di preposizioni più completa, con l'effetto di orientare verso il complemento di materia i rapporti di determinazione ("unghia piatta di biscotto", "spellata di placenta"). Non si tratta di cercare un effetto di indefinito linguistico, ma di operare sulla lingua come su un materiale inorganico. Fili, sapone, cibo, gesti che legano tra loro gli oggetti sono gli elementi ricomponibili nella sintassi di una forma plastica del testo.
E lo stesso vale per la seriazione di altri effetti visivi che a prima vista farebbero pensare all'estremizzazione della forma lirica, primi tra tutti gli a capo che spezzano dopo una preposizione il nesso determinato-determinante: "bevuta nei / 2 occhi-pozzi / specchiata nei / 32 denti, / annusata dai / gangli", altrettanti tagli sulla tela-testo. Se il "poetese" di certa scrittura femminile vive dell'equivoco metafisico, questo è qui del tutto assente. La lingua cerca una bellezza inorganica, lontano dai feticci di una retorica emozionata. Ma più che di una completa rimozione degli affetti in servizio della verità della visione, sembra corretto parlare di un loro differimento. Si crea così ad arte un vuoto che il lettore, privato dell'"esperienza lirica" legata all'adesione alla singola poesia, può riempire entrando nel bosco degli indicatori testuali, analitici, somatici che costituiscono il racconto della costruzione della persona. L'esperienza del bosco nasconde un tempo comune all'esperienza di ciascuno, è il punto in cui si allenta la tensione metallica del libro e si intravede il suo sentiero più aperto.
Fabio Zinelli

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