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Un saggio assolutamente imprendibile scritto davvero molto bene e con un apparato iconografico curatissimo. Un'analisi puntuale ma al tempo stesso accessibile anche ai non addetti ai lavori, come nello stile delle pubblicazioni della Frugoni, in cui si non solo affronta non solo la storia e l'analisi iconografia degli affreschi custoditi nella Cappella Scrovegni, gioiello di Giotto e della sua bottega, ma della figura così affascinate ed al tempo stesso controversa del banchiere Enrico, l'esponete di spicco di questa grande famiglia della nobiltà borghese della Padova medioevale. Interessantissimo è anche lo studio sul testamento dello stesso banchiere analizzato in ogni sua parte.
Libro eccellente. L'autrice ci dà una magistrale lezione di metodo e lo fa attraverso la descrizione di una selle più belle opere di Giotto.Ogni particolare degli affreschi, anche quello in apparenza meno significativo, viene analizzato dettagliatamente al fine di evidenziarne tutte le possibili valenze semantiche. Cosi facendo la Prof.ssa Frugoni ci regala un ottimo saggio di iconologia medievale che è allo stesso tempo uno studio molto imtressante sulla mentalità religiosa del medioevo. Molto bello anche il taglio editoriale, sobrio ma elegante, tipico della Einaudi.
Recensioni
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"[Povertate] di peccare è via / facendo spesso a' giudici far fallo / e d'onor donna e damigella spoglia, / e fa far furto forza e vilania, / e spesso usar bugia, / e ciascun priva d'onorato stallo". Le parole della Canzone della povertà sono celebri e il saggio di Chiara Frugoni può esser letto come il perseguimento di quello spirito da parte di Enrico Scrovegni attraverso la cappella dell'Arena di Padova, costruita nei primissimi anni del Trecento e decorata dagli affreschi di Giotto; ma anche, che la composizione fosse o no da attribuire a quest'ultimo, l'analisi della comunione di intenti fra il grande mercante e il sommo pittore.
Il volume consta di tre nuclei concomitanti. Il primo è il profilo che la storica di vaglia dedica al committente. Con il consueto argomentare laico sono confutati i due principali luoghi comuni ancora correnti circa la famiglia e gli intenti di Enrico: ovvero, che i suoi antenati diretti fossero di bassa condizione, come voleva già Giovanni da Nono, e che la cappella fosse stata eretta per rimettere il peccato di usura, con l'indiretto avallo di Dante che incontra il padre Rainaldo nel terzo girone del settimo cerchio (If. XVII, 64-66). La costruzione e la decorazione della chiesa denunciano invece "intenti autocelebrativi, scevri da sensi si colpa. Ostentano il successo personale del committente che si rispecchia nel consenso cittadino".
Il secondo nucleo è costituito dalle puntuali note iconografiche, che al contempo descrivono la storia e l'esaltazione figurativa di Maria e dimostrano quanto la programmazione fosse attenta a rimarcare l'operato del committente quale esempio di buon uso della ricchezza. Fedele a questo doppio livello di lettura, la grande conoscitrice della cultura medievale contestualizza particolari ignorati e fa apprezzare gesti apparentemente trascurabili (ad esempio la mano alzata del giovane dello Sposalizio di Maria e Giuseppe che allude alla manata che il padrino assestava allo sposo per dimostrarne la virilità), evidenzia come lungo tutto il ciclo la connotazione ebraica sia usata sistematicamente per i cattivi (in primis per Giuda) e riconosce nel bastonatore di colore del Cristo deriso il "nero saracino", richiamo tradizionale "alla perfidia di una religione che si riassume nel colore della pelle volutamente brunita come segno identificativo del male".
Le raffigurazioni dei Vizi e delle Virtù inserite nelle finte specchiature dello zoccolo sintetizzano i valori di Enrico e introducono all'ultimo giudizio, con Scrovegni fra i beati a offrire la chiesa alla Vergine, pronto a raccoglierne la benevolenza sotto forma del raggio di sole che illuminava quella porzione di muro la mattina del 25 di marzo; il giorno scelto per le consacrazioni del 1303 e del 1305.
L'impegno ossessivo di Enrico per la chiesa padovana è rivendicato nel testamento, il settimo, finora noto ma mai edito, che nell'avvincente ed esaustivo commento di Attilio Bartoli Langeli chiude il libro. Tre sono le immagini di Scrovegni nell'edificio (oltre che nel Giudizio, orante nella statua già all'esterno e gisant nel monumento funebre), ma ogni sforzo sarebbe stato vano se le sue spoglie mortali non vi fossero approdate. A Venezia dal 1320, il loro rientro a Padova non era scontato e costituisce la prima preoccupazione del testatore: solo dopo aver stabilito con lucida precisione mercantile il da farsi nei diversi scenari possibili, il documento dà conto dei più consueti obblighi; tuttavia, sempre attento, ancor prima che al regno dei cieli, a "predisporre la propria dipartita e a provvedere nella maniera dovuta e ordinata dei beni e degli affari (
) finché il tempo gli è concesso".
Enrico fu alla fine sepolto in Santa Maria della Carità dell'Arena. Che gli sia valsa o no la salvezza dell'anima, la fama presso i posteri che gli hanno garantito gli affreschi di Giotto è stata un eccellente esito del buon uso delle sue ricchezze. A buon diritto, il suo affare migliore.
Alessio Monciatti
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