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Deserti americani - Reyner Banham - copertina
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Descrizione


Banham, visitando il deserto del Mojave, si accorge un giorno che il "puro deserto" non esiste: ovunque, anche in quella landa smisurata e letale che è l'America desertica, la vita ha lasciato nei millenni impronte, modificazioni, architettura. In una parola "civiltà", capace di ispirare un resoconto - metà libro di viaggio e metà trattato, ma con modi da romanzo - che nel suo girovagare tra sentieri, piste, binari abbandonati, villaggi indiani, finisce per parlare di tutto il mondo, e della vita, e del suo senso.
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Venditore:

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Dettagli

2006
XVI-211 p., ill. , Brossura
9788806185022

Voce della critica

Scenes in America Deserta, di cui ora Einaudi propone la traduzione, è, con i libri su Los Angeles e Buffalo, frutto del trasferimento di Banham negli Stati Uniti nei primi anni settanta, dopo il periodo londinese nel quale lo storico dell'architettura aveva accompagnato i gruppi della neoavanguardia europea con un'anticipata attenzione alla cultura di massa (riletta come sviluppo della tradizione antiretorica ed empirica della democrazia inglese) e un'autentica passione per la tecnologia (fino alle immagini luccicanti del techno-pop). I libri americani hanno un impatto altrettanto forte: cambiano il modo di leggere città e territorio.
Vittorio Gregotti, introducendo l'edizione italiana di Los Angeles, parla del libro come di una guida turistica particolare che ricorda da vicino il mondo dei viaggiatori europei del XVIII secolo, il loro occhio attento prima che alle cose, a mettere a freno i propri pregiudizi e a comportarsi in modo capace di comprensione. In apertura a questo volume, anche Banham parla, con understatement, di un'esplorazione possibile a un turista medio inglese. In realtà il libro contiene ben altro. Nelle sue pagine si mescolano memoria individuale e collettiva, la consapevolezza delle difficoltà di misurarsi con un paesaggio estremo che sconvolge ed esalta. L'autore parla della qualità della luce, della rifrazione, della scissione del colore dalla forma, del calore, del vento e del vuoto, del carattere del deserto che è "essenzialmente aria colorata" nell'estetismo di Van Dyke (locuzione che a Banham appare "un lampo di riconoscimento della cosa giusta"). La sua è una ricerca di dispositivi utili a osservare il modo in cui si coniugano l'essere umano e l'ambiente arido. Riscopre una sorta di weberiana etica protestante, sfilacciata e strafottente, che si riflette nella luce e nello spazio del deserto. Indaga manufatti anonimi che esprimono il loro carattere eroico in assenza di un proprio stile. Lavora su questa distanza. Ricostruisce quadri che sono insieme geologici, geografici, ambientali storici, sociali ed economici, capaci di raccontare la presenza degli umani nel deserto, a partire da descrizioni frammentarie di comportamenti individuali e collettivi di fronte alla natura. Ne ricostruisce le trame e scopre che non rimandano a una condivisione con l'ambiente, a un'ecologia del deserto, ma semplicemente, si sarebbe portati a dire, al capitalismo consumistico. Contrappone con ironia il mito dell'uomo solitario alla sopravvivenza in "deserti modestamente popolati". Dedica pagine pungenti a Frank Lloyd Wright, "l'anglosassone protestante più autorevole che abbia preso in considerazione i deserti americani".
Al centro rimangono, in ogni caso, gli spazi e le cose. Sarebbe troppo semplice dire che quella che Banham ci propone è un'indagine sull'ordinario. Stile collaudato nella sua intensa attività di "cronista" testimoniata da più di settecento articoli. E assunta esplicitamente come direzione di lavoro ("gli interessi professionali di uno storico non possano trovare estranea nessuna realizzazione dell'uomo", scriverà nel testo su Los Angeles). Una direzione nella quale oggetti e ambienti umili rientrano a pieno titolo. Nella riflessione di Banham il riallacciarsi alla sfera delle pratiche avviene al livello alto, secondo tradizioni europee più o meno coeve a questo testo che ritroviamo nei lavori empirici di de Certeau e Bourdieu. Avviene in forma di osservazione e interrogazione. L'attenzione si rivolge a manufatti desueti (pozzi, pompe, caselli ferroviari); alle strade (cui dedica un intero capitolo); alle oasi, la più importante delle quali, "estrema e terminale" (seppure la seconda aggettivazione si completa di un punto di domanda), è Las Vegas. Sempre immaginando atteggiamenti, intenzioni, posizioni di coloro che hanno costruito e abitato i luoghi e gli oggetti dei quali parla. Nella consapevolezza che una tale ricognizione richiede molta cautela poiché "è facile trarre conclusioni allettanti, ma non giustificabili".
Se si ripensa al modo in cui era inteso il mestiere dello storico dell'architettura negli anni settanta, tra letture semiologiche e filologia, si coglie con più evidenza la generosità e il coraggio degli studi di Banham nell'ibridarsi delle pratiche dell'indagine che non teme lo scivolamento in generi differenti, nelle forme del linguaggio piane e accattivanti, nella costruzione del campo a partire da un'idea di architettura come testimonianza della vitalità dei modi di stare nello spazio e nello sforzo di anteporre a ogni interesse disciplinare e accademico la necessità della contemporaneità e della sua comprensione. A questi due aspetti, in particolare, non possiamo che essere ancora molto vicini.
  Cristina Bianchetti

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