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Quest’anno la commemorazione del rapimento di Aldo Moro ha cortocircuitato con la Pasqua cristiana, commemorazione di un altro noto sacrificio. Un quarantennale perfetto, che quasi ripetendo la congiuntura lunare (Pasqua cadde il 26 Marzo 1978, e cadrà il 21 Marzo 2008; Moro venne rapito il 16 Marzo) ci offre oggi un paesaggio televisivo monopolizzato in uguale proporzione da queste due morti cruciali. Bruno Vespa, nella notte tra Giovedì e Venerdì Santo, poteva dunque dedicare una puntata del suo programma ai “55 giorni di Passione“, così compiendo la definitiva reductio ad Christum del presidente democristiano. Il corpus delle lettere dalla sua prigionia, ben curate da Miguel Gotor per Einaudi, d’altronde, non può che essere letto in questa prospettiva martiriale, che evoca gli epistolari tragici di Paolo di Tarso o di Ignazio di Antiochia. E proprio come queste lettere antichissime, anche quelle di Aldo Moro ci giungono in forma apocrifa, o meglio come risultato di una contorta sovrapposizione al termine della quale si trova un autore impossibile.La sua prigionia viene descritta come “Calvario”, e l’accettazione della Ragion di Stato non va senza un personale Lemà sabactàni? rivolto allo Stato, al Partito, agli antichi compagni. Tutto dunque, in queste lettere disperate, lascia intendere una curiosa immedesimazione nel sacrificio cristiano, che andrebbe intesa nel suo senso teologico-politico. Ma se il martirio è testimonianza, che cosa testimonia la morte di Aldo Moro? Qual è il significato storico della sua morte e delle sue parole? Fintanto che all’iconografia martiriale non si affiancherà una risposta a queste domande, tutto continuerà a risolversi nelle perpetua ripetizione spettacolare di un lutto mai assimilato. Già lo scriveva Leonardo Sciascia, che a queste lettere manca innanzitutto di essere lette. E leggendole si deve per forza fare i conti con un’ultima plateale messa in scena cristologica, il terribile “Il mio sangue ricadrà su di loro” che Moro lancia come maledizione al Sinedrio democristiano.
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