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Davvero molto pretenzioso. Davvero poco poetico. Se il tema non fosse Sacro verrebbe da sorridere.
Non mi piace proprio, i versi non sono versi, sono troppo banali e scontati... questa non è poesia.
E’ una raccolta poetica costituita da trenta poesie che sono dei veri e propri canti, ciascuno di sette quartine di endecasillabi. I versi si dipanano con ritmo sostenuto, di tanto in tanto trovando pause che segnano il tempo del pensiero. Dalla prima poesia fino all’ultima, il poeta, percorre con abile sapienza, non solo poetica ma soprattutto storico-evangelica e forse anche di fede, le vicende di Maria, dal concepimento del figlio Gesù-Dio alla morte in croce, alla resurrezione e alla stessa assunzione di Maria, la quale appare, fin dal primo verso, bambina più grande del Creato, come colei che è già compresa in Cielo, contenente il Paradiso stesso. La silloge è un filo continuo di meditazioni, di pensieri che aiutano a focalizzare la grandezza di questa bambina sognata finanche dai sogni: “[…] Ma i sogni la sognavano più forte / del sogno che a ogni nato è dato in sorte / prima che nel silenzio della morte / le vite si ritraggano contorte / […]”. Nel suo percorso narrante Nove ha la capacità di mettere in luce i sentimenti e i pensieri dei fatti che avvengono lungo la narrazione evangelica, come se avessero una loro soggettività; lo stesso Angelo che porta l’annuncio, davanti a Maria trova il suo stesso senso. Il poeta è abile nel procedere talvolta con affermazioni che tenta subito di allargare nel significato, come un cerchio d’onda sull’acqua che cerca di prendere dentro tutto il lago ma che inesorabilmente si smorza, per quanto ampio sia, così il poeta cerca di allargare i confini del senso delle parole e del loro naturale limite, riuscendo nell’intento, utilizzando talvolta il gioco di accostare parole dal senso opposto. In questo modo riesce a rendere il grandissimo mistero di Maria, del Figlio che concepisce, del suo amore verso di lui.
Recensioni
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"Lei era una bambina che qualunque collina / avrebbe voluto avere come sole": si apre con un'autocitazione (da Amore mio infinito, del 2000) il poemetto di Aldo Nove Maria. A breve distanza dalla pubblicazione del libro inchiesta sul precariato (Mi chiamo Roberta, ho 40 anni
, Einaudi, 2007) il fu cannibale è tornato alla poesia, e c'è tornato con grande sorpresa e "scandalo" di quelli che pure furono grandi detrattori di quella stagione pulp ormai all'unanimità giudicata esaurita, pur non essendone stati, invece, definiti in modo altrettanto chiaro i distinguo tra gli afferenti al gruppo: tra coloro, cioè, che ne facevano mero vessillo o schermo, rispetto alle più durevoli individualità, da Silvia Ballestra allo stesso Nove. C'è tornato, si è detto fin troppo (a partire dall'anticipazione di Maria sulla rivista "Poesia" all'inizio del 2007, sul numero 212, con nota introduttiva di Andrea Cortellessa), da "convertito": con un libro metricamente assai costretto (in trenta canti di quartine di endecasillabi, sia pure per lo più irregolari), e dunque quasi regressivo, e nientemeno che di argomento mariano, perciò praticamente reazionario. Ma Aldo Nove "c'è o ci fa", gli chiede, non tanto inopportunamente come potrebbe sembrare, uno spettatore del "RicercaBo" di Renato Barilli, Niva Lorenzini e Nanni Balestrini (Bologna, ottobre 2007), evento in cui l'autore avrebbe dovuto leggere, per la prima volta in versione integrale, il poemetto. Avrebbe dovuto, sì, perché la lettura si è invece presto tramutata quasi naturalmente in performance collettiva, e nel pubblico, costituito essenzialmente da scrittori misti a critici (e proprio da un'occasione del genere, l'allora "RicercaRe" di Reggio, il praticamente sconosciuto Antonello Satta Centanin si mutò correva l'anno '95 nell'Aldo Nove di poi), si è diffusa la sensazione che di quella Maria ci fosse proprio necessità di appropriarsi, condividendo con l'autore la responsabilità dello scandalo.
Aldo Nove c'è o ci fa, allora, come ci siamo o ci facciamo tutti. A maggior ragione se quella bambina che "qualunque collina / avrebbe voluto avere come sole" si cala sin da subito entro un orizzonte materiale, il cui problema principale rimanda all'attualissima necessità di tramutare "l'indigenza in abbondanza". A questo riguardo, abbiamo già in altra sede accostato idealmente la protagonista (solo una delle tante in realtà, quella evocata dal titolo) del libro "precario" con questa Madonna umanissima, nient'affatto incomparabili come il gap epocale avrebbe indotto a pensare, e non così incompatibili come la deriva del dibattito (non a caso svoltosi, finora, prevalentemente sui blog nel solito modo scomposto tipico del medium) sulla improbabile conversione dell'ex cannibale ha lasciato intendere. Se però Roberta lamentava di non potersi concedere, di un figlio, nemmeno il desiderio ("le statistiche dicono che ci vogliono duecentotrentamila euro per crescere un bambino"), Maria è, viceversa, madre, anzi, la madre delle madri: la madre del Figlio per antonomasia, e, soprattutto, la paradossale "Vergine Madre figlia del tuo figlio" della tradizionale innologia cristiana, invocata tanto da Dante quanto da Petrarca, a conclusione di un percorso in entrambi i casi improntato alla costruzione di un uomo (sed auctor) nuovo.
Conviene, allora, guardare alle premesse letterarie, prima che alla eventuale metabolé personale, per arrivare a rispondere, e con tutta la serietà del caso, che Aldo Nove c'è, e sicuramente non ci fa. E dunque: alla stessa creatura, a Maria, si era rivolto nel "sacrato poema" anzitutto il più ideologico dei poeti della nostra tradizione: per il tramite di san Bernardo, nell'ultimo canto del Paradiso, Dante aveva levato il suo inno, propiziatorio della visio Dei. Si concederà, almeno, ad Aldo Nove (e non solo a Benigni) di poter rifare Dante? L'imitazione si realizza innanzitutto sul piano strutturale, recuperando la formalizzazione liturgica dell'orazione dantesca, a partire da quello che Auerbach (citando a sua volta Norden) aveva definito l'artificio retorico del Du-Stil:l'invocazione a Maria si fa col "tu". Tale modalità reca poi come immediata conseguenza formale il ricorso a una serie di elenchi-litanie-allocuzioni, valevoli a rinfrescare ai fedeli le qualifiche canoniche della madre del cielo. Nella Maria di Ado Nove la soluzione è adottata a partire dal terzo canto, in cui al contempo risuona ed è un momento capitale del poemetto una vibrante eco da Iacopone, altro inevitabile nume tutelare: "questo, senti, Maria? / L'eternità ha trovato in te la via".
Ciò di cui si fa a meno, invece, rispetto alla tradizione innologica, è l'antitesi fondativa del dogma mariano: "vergine e madre", Aldo Nove, non lo dice mai. Non è questo infatti il paradosso, e non è questo lo scandalo (termine viceversa piuttosto ribadito). Invece, la reversibilità di qualunque vita (non solo di quella di Cristo, dunque, presenza addirittura secondaria) nel suo contrario, entro un ridimensionamento dell'esaltazione creaturale che coinvolge lo stesso creatore, reso qui minuscolo ("Madre di dio che in te dio è diventato / bambino") o solo accidentalmente maiuscolo, per necessità grafica. Maria è, di fatto, per l'ex cannibale (ma allora anche ex studente di filosofia, perché non ricordarlo?), il punctum di quell'assurdo esistenziale che si potrebbe definire, forzando ancora le affinità con Roberta, il precariato biologico.
E non si può non ricordare come già un altro poeta-filosofo, stavolta ateissimo, il Leopardi delle Operette morali, avesse ipotizzato in quella sorta di Genesi laico che è la Storia del genere umano, un'umanità primordiale fatta di uomini "tutti bambini". Il Leopardi delle Operette non avrebbe mai definito, come qui Aldo Nove, il cielo "compromesso" con l'infelicità umana: caso mai "indifferente". La conversione del cannibale passerebbe quindi attraverso il pianto creaturale della madre, la "bambina che qualunque collina / avrebbe voluto avere come sole". Ma se si legge a fondo si vede come il cielo, quel pianto, semplicemente "non capiva". Come molti non hanno capito, e perciò non ne hanno nemmeno scritto, la ragione profonda della Maria di Aldo Nove, l' ex cannibale. Gilda Policastro
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