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Ha ancora senso scrivere poesie post res perditas? Le cose perse sono le illusioni, le speranze, gli slanci accumulati durante gli anni ruggenti della contestazione operaia e studentesca tra i sessanta e i settanta. Perso o dilapidato, sconfessato e nel contempo rimpianto, risulta in particolare il capitale teorico e/o utopistico di cui si erano nutriti, fino a creare false aspettative e malintesi, quegli anni. Anni che coincidono, per moltissimi, con l'età della giovinezza, con il giovanile proposito di dar corpo al privato progetto esistenziale. Il poeta che si pone la domanda, non tanto diversa da quella ben nota di Adorno sul far poesia dopo l'Olocausto, ma certo molto meno terrificante, è Gianni D'Elia. La risposta sottintesa sta in trent'anni ininterrotti di lavoro poetico, dal 1977 al 2007, i cui frutti si possono cogliere in questa autoantologia.
A tener viva la fede nel poetare, prima di ogni altra cosa, sono l'obbligo etico della testimonianza e l'istinto di sopravvivenza. È "lo scatto / di una memoria che ci fa tremare / ancora di gioia e di malore", in altri termini, la convinzione che, a dispetto dalle devastazioni epocali, sotto le "ceneri dell'ideologia" è possibile mantenere accesa "la brace calda della poesia". Non per nulla, l'autore evoca la leopardiana ginestra come simbolo di resistenza (in particolare all'involuzione del processo storico) sotto la vigilanza dell'intelletto, e la pone a guardia del generoso florario esibito. La poesia, per D'Elia, rimane la forma più autentica di risarcimento dei nefasti causati da un progetto politico che, accolto in buona fede da una generazione "che ha lavorato a conquistare il cielo", sarebbe tuttavia presto degenerato nell'estremismo terrorista, anche a causa dell'arrogante prosasticità devitalizzata che si celava dentro l'ideologia nuda e pura. D'Elia condanna questo sogno scambiato per realtà e "svanito per sempre", da lui stesso un tempo condiviso, ma al di là del deplorare avverte il bisogno di una complessiva revisione problematica di quel periodo. Il nodo di frustrazioni conseguito ad anni di velleitarismi e folli speranze viene evocato in modo magistrale nel Monologo della vecchia (1993), nel puro stile della palinodia.
Sopra un vuoto che rischia di assumere un'inquietante dimensione antropologica, di portata sicuramente non solo italiana, rimangono dunque loro: "gli unici maestri veri, eretici, i poeti". Dove l'eresia corrisponde alla stessa modalità d'essere del poeta, soprattutto quando si fa operatrice del "contro" fino a promuovere la presa di distanza dal pensiero-comportamento unico (con i rituali di massa che ne conseguono) o dalla tentazione di lenire le ferite "di lunga durata" della memoria mediante i balsami del ripiegamento intimistico. Eresia non certo come adibizione di strumenti eversivi sul versante del linguaggio e dell'espressione, secondo la prassi delle neoavanguardie. Il discorso, al riguardo, è altro. Se l'ambito di riflessione metodologica appare discretamente impregnato di magistero fortiniano (riscontrabile in particolare nella sezione Congedo della vecchia Olivetti, 1996), i modelli poetici di D'Elia, talora scoperti, ci portano in primo luogo al costruttivismo ideativo e poematico di Pasolini, dietro il quale il lettore può rincorrere perfino la lontana figura di Parini, paradigma nobile di ogni moderna poesia civile attenta a non separare il poetico dall'impoetico pur prestando la massima cura all'elemento prosodico-ritmico dell'enunciazione: "Forse il verso è l'essenza della prosa, / come il cantare lo è del pensiero". Le dichiarazioni d'affetto per la rima sono numerose. Una per tutte: "Se non la storia, la nostra memoria / la risarcisca almeno un po' la rima". In tale contesto, riaffidare la parola all'istituto metrico della tradizione, malgrado la consapevolezza di operare nella postmodernità, è un gesto a sua volta civile, un atto di protesta contro l'involgarimento progressivo del comunicare.
Da uno sguardo a volo d'uccello sul corpus, l'impressione è quella di una tensione progettuale e dialettica costante che si riverbera sulla relativa omogeneità del livello stilistico. Non che le raccolte si succedano senza variazioni tonali. L'impianto lirico, per esempio, con il suo oscillare tra il cantabile e i registri alti ("afrore d'alghe", "effetto d'impìa rifrazione"), con il coinvolgere anche il regno delle ombre dove "più nessuna stella può luccicare", sembra costituire un tratto distintivo fino a Notte privata (1993). Seppure in maniera meno appariscente, esso permarrà nei libri successivi, cercando equilibri strutturali di fronte a istanze diverse, non di rado compromessi con l'incisività prosastica e cruda dell'invettiva o della palinodia, e con il consolidarsi dello sfondo realistico (Bassa stagione, 2003). La fonte emozionale che condizionerà, nell'insieme, il vitalismo di D'Elia, va colta magari nei madrigaletti di Febbraio (1985), in versi dove l'io, rievocando il passato, documenta "il cieco struggimento della vita, // che da sempre essere ho creduto / la poesia". Del moto nostalgico, che talvolta fa risentire la grazia asprigna di un Saba, per poi incupirsi al vaglio di qualche intuizione leopardiana sulle vane promesse della vita, D'Elia non ha motivo di vergognarsi. Anche perché il suo è un nostos criticamente metabolizzato, quasi del tutto scevro da compiacimenti crepuscolari, checi riporta al paesaggio della fanciullezza, la Riviera adriatica, e agli affetti più teneri da esso evocati. Il mare, colto nel duplice volto euforico (di elemento naturale rigenerativo) e disforico (di oggetto di consumo turistico-edonistico), rappresenta lo scenario dominante: insostituibile matrice vitale, dispensa di sensualità cui si aggregano i mitemi dell'infanzia prolungata, ma anche cornice antropica che i rumori della storia frastornano: entità in ogni caso ben focalizzata dall'io, la quale, per continue metamorfosi, partecipa della stessa oscura mise en abîme propria dei palinsesti memoriali. Complessa si fa allora l'operazione, nell'intrico di sogno e ricordo, ratio e sentimento, di trasferire sulla scena poetica porzioni di reale per coglierne l'immaginario flusso sublimante e desublimante, quel movimento irrefrenabile di "tutto ciò che immobile si muove // e non trova requie nell'inquieto pulsare". Là dove appunto si riassume l'avventura poetica del vivere. Gilberto Isella
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