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che bella sorpresa!il giudizio positivo della gentile libraia mi ha indotto a comprarlo, ma non mi aveva entusiasmato nè il titolo nè la giovanissima età dell'autrice. e invece... invece a riprova del fatto che scrittori con una marcia in più si nasce la nostra rossella ha talento da vendere. bellissimi racconti, molto molto maturi. una sensibilità particolare verso personaggi che dello straordinario non hanno nulla, ma proprio per questo nella loro quotidianeità ripongono la loro forza espressiva. veramente meriterebbe un giudizio anche più alto, ma aspetto di leggere qualcosa di più lungo.
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Dopo la raccolta di Prendetevi cura delle bambine, segnalata alla 18a edizione del Premio Calvino e pubblicata da Avagliano nel 2006, Rossella Milone, classe 1979, torna, confermandosi valorosamente, questa volta da Einaudi, con La memoria dei vivi, silloge di tre racconti lunghi, strettamente connessi per temi e stile narrativo (preciso, senza sbavature, uncinato al proprio oggetto). Parlare di racconti è probabilmente fuorviante, si tratta piuttosto di cerchi disegnati nell'acqua da una pietra lanciata con penetrante levità, per poi essere riassorbiti al centro. Non c'è sviluppo narrativo, c'è lo scavo di impotenze femminili dettate dall'amore: un amore familiare, assorbente, onnipervasivo che finisce con il rivelarsi fallimentare, ma senza che lo si sappia vedere e ammettere. Le tre donne protagoniste, Lena (Leucosia), Silvana (Le gioie dei morti) e Nice (Il centro di niente) compiono gesti di affetto, o meglio di cura, verso mariti, sorelle, padri, sono ineccepibili, ma non colgono nel segno, sia che riescano a trattenere l'oggetto relazionale, sia che non vi riescano, non suscitano amore, tutt'al più un attediato riconoscimento. Lena trattiene accanto a sé con dedizione morbosa, a scapito di una carriera di ricercatrice, il marito gravemente colpito nella propria autonomia, Silvana inutilmente si prepara ad accogliere la nomade sorella attrice da cui è separata da tanti anni, Nice mantiene uno stanco rapporto con il marito e si rivela incomprensiva con l'anziano padre che vagheggia ancora una propria vita affettiva. Lena e Nice sono come disturbate da ogni squarcio di luce, da ogni elemento di bellezza e vitalità, sono ossessive con il cibo: la ciliegia non è una rossa festa, il peperoncino non sprigiona fuoco.
Ossessivamente male peraltro della nostra epoca calcolano valori dietetici e scelgono l'esangue. La cura, tema al centro di tanto pensiero femminile, sembrano suggerire, del tutto inconsapevolmente, Lena, Silvana e Nice attraverso questi pezzi, non dà felicità. Le tre donne alla fine (ma è un termine poco confacente) si ritrovano al punto di partenza, sono rigettate e confermate in una situazione esistenziale da cui non sanno, non possono e non vogliono uscire. Sullo sfondo, qui come già in Prendetevi cura delle bambine, aleggiano altre figure femminili, come Dea del racconto che dà il titolo alla prima raccolta, come Carmen, la sorella di Silvana, come Teresa, la donna del pensionato di Villa Zante che il padre di Nice vuole sposare: sono donne che per realizzare se stesse hanno rescisso i legami familiari, seguendo il loro desiderio, anche sessuale, sono ex figlie dei fiori, ex sessantottine, chissà, femministe un po' polverose. Anch'esse hanno fallito, così sembra. Il cerchio si chiude in una duplicata impotenza. Dov'è la via d'uscita?
In filigrana, negli interstizi della narrazione, si intravede Napoli con il suo viavai di motorini, con le voragini in strada nei giorni di pioggia, con i suoi guasti anche nei luoghi più belli, Napoli che aggiunge impotenza a impotenza. La quasi impossibilità di attraversare il tessuto urbano è come l'incapacità di superare la distanza verso le persone di prossimità, ciò che finisce con il paralizzare le protagoniste. In questo fitto di caseggiati, di rumori, di auto mal invecchiate, di tanto in tanto si apre un varco di natura Procida, qualche pezzo di Cilento una traccia dell'antica bellezza. Qualche uccello che si è salvato. Uno strano, piccolo rettile, la leucosia, rapita da un uomo, che cerca la libertà. Ma bisogna sapersela dare. Occorre un atto. Mario Marchetti
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