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Testa propone, attraverso i suoi versi ben orchestrati e con varietà linguistica lodevole, una visione del mondo disunita, in cui le varie parti cadono in un conflitto irreparabile che lo destina inevitabilmente alla rovina: “[…] / E loro, strinati dalla primavera improvvisa, / sempre lì a chiedersi / se siano alleati, o nemici, / i libri, i fiori, le luci fugaci, i soffi vischiosi, le voci / dolci acute invadenti / nascoste nelle cortecce o nelle fessure, / e per quanto tempo potranno ancora durare / le imposte cadenti marce di salmastro… / […]”. Un bel libro, una bella prova di scrittura legata alla vita, ai gesti del quotidiano – in parte si evincono dal libro le abitudinarie azioni dello scrittore. Egli parte sempre da scene e azioni esteriori ben precise per condurre verso i processi intellettivi e affettivi da cui scaturisce il suo pensiero.
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La produzione di questi versi si connette, e in una sua fascia si sovrappone, al tempo del libro precedente, La sostituzione (Einaudi, 2001). Colpivano in quell'occasione la "pluralità di figure e di voci", il tema centrale della perdita e dell'abbandono, la vocazione all'accesso a un paesaggio tra familiare e spettrale, una fitta pratica zoonimica e fitonimica adibita a equivalente della pluralità dell'"altro", al tempo stesso coinvolto e estraniato. Ritroviamo, aggiuntavi presumibilmente una ancora più vasta stimolazione odeporica, molti di questi aspetti nel recente Pasqua di neve. C'è dunque quanto basta per annoverare il lavoro del poeta e critico genovese tra quelli più definiti e più autorevolmente intonati della generazione di mezzo oggi attiva in lingua italiana.
Il contorno diacritico, propriamente "retinico", dei singoli testi è generalmente costituito da un alternarsi (o da un coabitare) di elementi di apertura e di meccanismi di chiusura. Si tratta di clic stilistici importanti e intenzionati, rappresentativi di altro: assai spesso si inizia con la lettera minuscola, fenomeno grazie al quale evidentemente l'autore ci guida all'interno di una griglia di ipotesi sulle relazioni con un "non detto" ricco di potenzialità ermeneutiche; altre volte l'uso frequente delle virgolette apre alla forma del discorso diretto senza che però ci sia nota la relazione tra parlante e destinatario. Chi dispone, in quel preciso momento, della titolarità di parola? E chi si dispone conseguentemente a esserne il destinatario? Mi sembra un nodo stilistico e problematico non indifferente sul percorso dell'interpretazione del senso.
Contemporaneamente, questo complesso di fenomeni segnaletici, il cui risultato oggettivo è in ogni caso quello di eludere il primato (anche commerciale?) della "chiarezza", va ad aggiungersi ad altre tracce del patrimonio tradizionale del genere: c'è un uso delle rime abbastanza costante, rinvenibile nella classica posizione di attivatore gnomico-mnemonico, e cioè nella parte finale dei testi; funziona come elemento di crisi, traccia non cancellata, congedo e ironia al tempo stesso, allusione, accortamente trascinata verso la bassa voce, alla memoria del poetico. Sembra segnalare quei sintomi di interdipendenza reciproca tra poesia e prosa che oggi sono fortemente rappresentativi di ogni pensiero critico adeguatamente organizzato; e qui forse c'è una forma della riflessione che fa un riferimento critico a un medio Novecento in fase postmontaliana, che traina frammenti segnaletici del sublime (forse di un sublime già all'origine usurato), o alternativamente del gioco, presi in considerazione da autori fra terza e quarta generazione. In una parola, i padri letterari. E allora il lettore di questo intensissimo libro deve accettare il fatto che il senso, nel suo accidentato transito verso la decodificazione, trovi una serie di incagli organizzati che gli impediscono di eludere la natura citatoria delle grandi tradizioni di riferimento. Anche questa, dunque, è una poesia forte che come tale deve confrontarsi con i problemi ostinati della "intransitività" costituzionale del genere.
Inoltrandosi nella lettura ci si sente ben presto immersi in un clima stoico, severo e diffusamente doloroso, nonostante (o forse pour cause) il clima allusivamente "cortese" messo in atto dal cerimoniale degli espedienti della tradizione appena descritti. Sono atmosfere oniriche, incubi dotati di sgorghi autoanalitici sostenuti da guide di esperienza, tracce di un io autocosciente e responsabile malgrado la presenza di tratti di una quasi beckettiana perdita di sé all'interno dell'intrico della situazione pronominale, ma senza gli estremi di quella crudeltà nichilistica. Nasce qui tra le altre la figura emblematica dell'ostaggio, che potrebbe rinviare a certi modelli figurativi del pieno Novecento, tra gli Ètages di Fautrier e magari qualcosa degli spasmi claustrofobici di Bacon("li vedo dalle finestre / di questa casa saturnia / dai muri di calcina / salire al monte"), o della biologia lenticolare e urtante di Sutherland ("Una rana d'inverno sono stata / dal ventre gelido e opaco, / acquattata in me stessa / e solo in me stessa frugando / ragione e luce").
Non è un caso che sembra esserci salvezza unicamente nella fisicità dell'aperto: "Sui pianori del veratro, / sul costone delle turbolente / ramaglie dei mughi / e, per diverse quote / in saliscendi, / sugli spalti morenici / percorsi reverentemente / di sbieco. / Senza nome né origine: / vicini a una grazia / di primo grado". Esistono campi di visività di grande forza emozionale, tra possibilità e complicità, veri e propri orizzonti di salvezza se non di salute nel senso più profondo; e contemporaneamente si fanno avanti tratti di una visione miope, propriamente microfisica e vischiosa; oppure ancora tratti in campi lunghi sintomatici di una ricerca del "respiro". Interessante la messa in scena di una ostinata natura ariosa e liberata (esiste a tratti un vento che potrebbe essere quasi luziano), finalmente luminosa. L'aperto equivale, senza un'ombra espressa di denuncia, a un'alternativa alla consuetudine sociale verso l'antropizzazione dell'oggetto paesaggio che qui è vissuta come elemento disforico e ostativo.
Per questo le emozionanti e saggiamente disseminate poesie di viaggio sembrano trovare una mediazione tra la varietà dell'aperto e la garanzia rassicurante del noto: in questi casi i versi di Testa diventano opera di un singolare paesaggista (o vedutista), appagato dal transeunte nel momento in cui quest'ultimo riesca a trasformarsi in fenomeno stabile della coscienza grazie alla stessa molteplicità del reale, molteplicità che in questi rari casi sembra essere davvero l'opposto rispetto a quella "prolissità" del reale che secondo Borges sarebbe alla base dell'universale angoscia. Si dissolve a tratti quella certa costante uggiosa e depressiva, anche se questa "felicità", oltre che breve, sembra essere frutto di qualche paradosso liberatorio che si infila nell'ordine del giorno delle cose, investendole spesso di una autentica forma di gratitudine etica.
In questo senso Testa ci dà un propria versione della condizione umana; e però non manca di indicarci, appunto, delle intermittenze, magari in forma di agglomerati di nomina spesso riccamente botanici: ristoro, sosta, bei nomi antidepressivi, ma anche fortemente attivi sull'autocoscienza stessa; granelli euforizzanti della phoné, che è il nostro agente in avanscoperta. Forse, in definitiva, ciò che ci salva è questo luminoso atteggiamento congetturale e inquisitivo verso il sensibile. Giorgio Luzzi
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