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una collins "de noaltri". Atmosfere gotiche, già anacronistiche al tempo della stampa di questo romanzo soap. Fantasioso. Inverosimile. Sciapo.
Ho letto il libro qualche anno fa, in occasione di un festival della letteratura e me ne sono subito innamorata. Una storia avvincente e appassionante che mi ha tenuta incollata al libro fino ad orari folli. E'interessante anche poter osservare una struttura delle frasi e un'utilizzo dei vocaboli lontani dalla lingua italiana moderna, ma sembre raffinati ed elaganti.
Scrittura ,pensieri e trama troppo lontana dai romanzi moderni e dalla vita di oggi.Un classico leggerino che ho fatto molto fatica a finire e a farmi piacere.Un romanzo rosa che si puo' benissimo non leggere mai!!!!
Recensioni
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Appare da sempre come "la dama che ha anticipato di mezzo secolo la letteratura gialla e supergialla" (Emilio Zanzi, La mamma dei romanzi gialli, 1932). Era la prima a esserne consapevole. Intervistata da Guido Gozzano, per celebrare l'uscita del suo novantasettesimo libro, confessava: "Dovetti impegnarmi con alcuni giornali di Torino e di fuori e scrivere romanzi a sensazione con molti morti, con molti feriti e con non pochi imprevisti nonché con qualche sfondo poliziesco. (
) Impiegavo a scrivere un romanzo da 200 a 250 pagine non più di una settimana: non facevo mai correzioni. La trama la scoprivo leggendo le cronache giudiziarie e anche quelle più comuni dei delitti e dei fatterelli vari". Carolina Invernizio è il più famoso esempio dell'exploitation dei "fatti d'amore e di sangue" che sta alla base del consumo letterario puro.
Era stata espulsa dalla scuola magistrale per aver pubblicato un racconto "di perdizione". Straordinariamente prolifica, una dote che le valse alcuni proverbiali epiteti (dall'"onesta gallina della letteratura" di Gramsci al "conigliesca creatrice di mondi" di Cassinelli), è difficile stabilire con esattezza la cronologia e l'entità della sua produzione. Dopo Rina o l'angelo delle Alpi, apparso a puntate sulla "Gazzetta di Torino" nel 1877, Carolina Invernizio pubblicò almeno altri centotrenta romanzi. Scriveva tutte le mattine dalle sette a mezzogiorno, due storie per volta (la sorella Vittorina teneva il conto dei personaggi defunti) e contemporaneamente componeva articoli di ogni genere, che uscivano sotto pseudonimo sull'"Opinione" di Firenze. Nel 1890 tenne una conferenza di grande successo alla Società operaia di Napoli, che fu inclusa nel volume La donna italiana. Solidale con l'universo popolare e piccoloborghese delle sue lettrici, amava le parrucche, le pellicce, il teatro (a Torino frequentava il Gerbino, il Carignano, l'Alfieri). Diceva di essere "una signora perbene: (
) la moglie di un colonnello del commissariato". Al sabato accompagnava la figlia al santuario della Consolata. Nel mondo di Carolina Invernizio non c'è "nessun fremito di redenzione sociale" (secondo un'altra celebre definizione: "Carolina di servizio"). Neppure la sconfitta di Adua trova eco nei suoi libri, nelle decine di titoli famosi: L'orfana del ghetto, La cieca di Vanchiglia, Le avvelenatrici, Amori maledetti, Bacio infame. La sua lingua è satura, melodrammatica, fatta per rappresentare azioni ed eventi alterati e febbrili. La cifra espressiva è sempre convenzionale: "trasalì"; "le sue labbra tremarono convulse"; "le uscirono dal petto dei singulti strazianti". Anche per questa ragione i romanzi di Invernizio producono nel lettore di oggi (oltre alle rifrazioni parodistiche à la Poli), quell'"effetto Casablanca" (Eco), quella "festa di ritrovamento" dei cliché narrativi, che si determina quando si accumulano moduli inventivi e stilemi rigorosamente stereotipi.
La cosa più straordinaria dei suoi romanzi appare la sostituzione del superuomo (agente risolutore di trame, quelle di Carolina, "inverosimilmente arruffate") con una "società di donne". I nodi drammatici delle sue storie di rado sono sciolti dagli uomini. Più spesso le donne "al di sopra di inverosimili cabale familiari palesi e occulte, si uniscono in una sorta di federazione provvisoria di famiglie, per riportare le situazioni alla normalità" (Eco). Sulla donna pesa la condanna dell'opinione pubblica, ma Carolina è ben lontana dal suggerire alle sue protagoniste di sottostare alla legge dei "ladri dell'onore". Al contrario, la scrittrice le autorizza a violare l'etica corrente e a nascondere con l'astuzia e l'inganno l'immoralità dell'azione che le conduce a recuperare la rispettabilità perduta. Nella prospettiva del personaggio, il racconto di Invernizio si svolge sempre "sull'asse del segreto" e della "menzogna", ed è solo il narratore "ignaro" (e ambiguo "destinatore del sistema etico" dei suoi romanzi) a spostarsi sull'asse di verità dell'opinione pubblica.
Il bacio di una morta applica nel modo migliore quel "quadrato della veridizione" (Federzoni) secondo cui il personaggio mente, il narratore dice la verità, ma il lettore crede al personaggio. Un meccanismo che regola l'intero mondo narrativo della scrittrice vogherese. La ballerina Nara seduce e strappa il conte Guido Rambaldi alla moglie Clara, che il marito crede innamorata di Alfonso, quando, in realtà, Alfonso è suo fratello. Nara e Guido decidono di sbarazzarsi di Clara e l'avvelenano, ma Clara, creduta morta, viene salvata da Alfonso mentre è sul punto di essere seppellita viva. Clara e Alfonso decidono di sottrarre la piccola Lilia (figlia di Clara e Guido) a Nara e Guido e raggiungono Parigi, dove si trovano i due amanti. A Parigi Clara, travestendosi, assume la nuova identità di "Dama Nera". Guido se ne innamora, perché gli ricorda la moglie assassinata e tenta di uccidere Nara. Denunciato da Nara, deve rispondere di fronte alla legge dell'omicidio della moglie e del tentato omicidio dell'amante. Ma al processo, dopo essersi fatta riconoscere, Clara scagiona Guido. Grazie alla testimonianza di Clara i giurati (ma anche i lettori, che invece sanno la verità) si convincono che Guido è innocente e che il solo personaggio malvagio è Nara, che impazzisce. I personaggi sono tutti uniti dal vincolo del segreto-menzogna e l'opinione pubblica assolve Guido Rambaldi, con la giustizia che trionfa attraverso un errore giudiziario. Il segreto è risolutore, come le menzogne che si usano per difenderlo, e la donna, spesso con la complicità di altre donne, si incarica di risarcire se stessa e la propria famiglia, secondo una "strategia della clandestinità" che è un ingrediente indispensabile del grande feuilleton.
L'assenza dell'"eroe carismatico" avvicina i romanzi di Carolina Invernizio ai romans de la victime della generazione appendicista "borghese" (la Jeanne Fortier della Porteuse de pain di Montépin e, più indietro, Margherita Pusterla: "Lettor mio, hai tu spasimato?"), secondo l'ironica ricetta del Jérôme Paturôt: "Prendete una donna giovane e infelice, e perseguitata. Mettetele vicino un tiranno sanguinario e brutale, un paggio sensibile e virtuoso, un confidente ipocrita e perfido". Nelle opere di Invernizio, alle "sventure della virtù" è sempre sottintesa una "felicità nel vizio" (o una Felicità nel delitto), da cui i valori dell'"ideologia familiare" (Zaccaria) vengono "infranti e negati". La famiglia, con gli idola sociali che vi si riferiscono, è "l'altare su cui si compiono i sacrifici e i riti più crudeli", l'orizzonte filisteo funzionale all'infrazione sul quale poggia il sensazionalismo del racconto. Vittima e carnefice, creature angeliche e "sirene" si confrontano in una polarità interamente contenuta nella "macchina delle sorprese" (Portinari) dell'impalcatura romanzesca, nelle "forme semplici" che si complicano, non sul "piano paradigmatico" della psicologia, che è assente nei romanzi di Invernizio, ma su quello "sintagmatico e orizzontale dell'intreccio". Un labirinto, che traspone sul piano narrativo le perversioni nascoste nella violazione della norma, attraverso cui trovano sfogo gli impulsi inconfessabili del "tema macabro" (sepoltura prematura, necrofilia, incesto) e su cui si proietta la repressione emotiva del pubblico, abilmente sollecitata da questa "nipotina di Sade" (Baccolo). Valentino Cecchetti
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