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Anno edizione: 2009
Anno edizione: 2014
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Questo di Jones e' un lavoro decisamente particolare, lontano dalla classica biografia sportiva. Il viaggio verso la fama lungo l'europa di inizio '900 e' raccontato con toni lirici, semza inseguire la cronaca degli eventi. Nel romanzo (definizione impropria) si trova il racconto delle partite (con pagine davvero splendide), ma anche il flusso di impressioni ed emozioni suscitate dall'incontro con un mondo 'altro', in cui molti, emigranti di seconda generazione, cercano le proprie radici. La strada per la gloria passa prima di tutto dalla formazione della squadra, dalla creazione di un gruppo in cui ci si conosce, ci si comprende e ci si aiuta, sul campo e fuori. Non a caso la voce narrante e' una prima persona plurale, scelta stilistica infrequente. Forse al tutto avrebbe giovato una maggior stringatezza. Alcune divagazioni e la costante ricerca del poetico a volte tolgono forza e unita'. L'insieme pero' e' pregevole, a prescindere dall'ineteresse per il rugby.
Recensioni
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Nella letteratura sportiva, così come nella vita (che della letteratura sportiva è in fondo un sottogenere), i vincenti non sempre risultano simpatici. Vecchia storia: se non agli dei, alla gente è rimasto infinitamente più caro Poulidor, "l'eterno secondo", che non l'algido Anquetil, così come in materia calcistica il ricordo dell'arancia meccanica olandese del '74 suscita ancora oggi brividi di emozione mentre quello della Germania Ovest vittoriosa vive coperto di polvere soltanto nell'albo d'oro dei mondiali. E qualcuno saprebbe citare il nome del vincitore d'ufficio della maratona olimpica nella quale Dorando Petri venne squalificato, perché sorretto da un giudice a pochi metri dal filo di lana che tagliò per primo? No, non c'è niente da fare: i losers, soprattutto se belli giovani e sfortunati, emanano un indiscutibile fascino letterario. Scrivere un romanzo su di loro è molto più facile: la curva è già dalla loro parte. Eppure, a volte capita che anche i primi, i predestinati, i cannibali che agli avversari lasciano solo le briciole, assurgano al mito e diventino eroi buoni e universali. Per la perfezione del gesto atletico, per l'eleganza nella vittoria, per la modernità tecnica e l'originalità tattica, per la profonda alterità (mai infettata dall'alterigia) che rappresentano nei confronti di noi mortali. Fausto Coppi, Cassius Clay, il Grande Torino, John McEnroe, Ayrton Senna.
Tra questi, un posto di diritto spetta anche alla nazionale neozelandese di rugby, i celeberrimi All Blacks. In particolare, agli All Blacks originari ("The Originals", appunto) quelli che all'inizio del secolo scorso vennero in Europa a mostrare il loro personale miracolo: un rugby straordinario, mai visto prima, capace di spazzare via qualunque avversario con una facilità persino irrisoria. Evangelisti quasi inconsapevoli della forza del proprio messaggio, nel giro di pochi mesi diventarono delle stelle assolute nella madrepatria dei loro antenati e del rugby stesso: quella Gran Bretagna che si inchinò reverente al passaggio dei loro completi neri. Del resto, bastano due numeri a dare l'idea della potenza di quel tornado: ottocentotrenta punti segnati, trentanove subiti. Stop.
Il libro della gloria (titolo che dopo la lettura non sembrerà più così enfatico) si concentra proprio su quei mesi dell'autunno del 1905, raccontando "dall'interno" la tournée nel Regno Unito di ventisette ragazzi neozelandesi che nella vita di tutti i giorni (sport professionistico? nel 1905?) facevano i contadini, gli impiegati di banca, i minatori, i calzolai, i fabbri, i guardiani di mattatoio e persino meravigliosa definizione ottocentesca i "maestri d'ascia". Il loro connazionale Lloyd Jones, cinquantaquattrenne scrittore vincitore del Commonwealth Prize nel 2007, ha spulciato vecchie gazzette, rovistato negli almanacchi, visitato hotel fatiscenti e stadi abbandonati, alla ricerca delle tracce di quella lontana apparizione divina. Messi insieme i tasselli, ha ricostruito il quadro generale scegliendo un registro narrativo che è la vera forza del libro: sono infatti gli All Blacks a raccontare in prima persona, in un florilegio di pensieri, annotazioni, flash, suggestioni, che nel loro insieme costituiscono un "reportage" polifonico venato di candido stupore e, al contempo, irresistibilmente struggente. Tutti volevano vedere gli All Blacks, tutti ne volevano un pezzo. Gli uomini bramavano di affrontarli, le donne di amarli. Forse perché ogni tanto è confortante specchiarsi nella grandezza altrui. O forse, semplicemente, perché "eravamo le cose che stanno in vetrina, ciò di cui sono fatti i compleanni dei bambini. Eravamo il Natale, le bollicine nella bibita, la marmellata sul pane. Eravamo il posto da cui vengono i sorrisi".
Carlo Bordone
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