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Descrizione


"Questo libro nasce da un sentimento semplice. Dal vuoto che lascia il troppo pieno. Di politica parliamo tutti, in parlamento come nei bar, e viceversa. Ma lo spazio che riempiono le parole, immenso, è direttamente proporzionale al vuoto di senso che lasciano dietro di sé. Tanto che oggi è frequente vivere la politica come un territorio da cui tenersi lontani. Eppure non è sempre stato e non è sempre così. La politica, oltre che il principio della guerra con altri mezzi, è, soprattutto, il fare che ha per interesse la vita in comune. Senza retorica e senza la retorica del cinismo. Con questa idea, abbiamo provato allora ad affidare la politica a chi non ne fa in un modo o nell'altro una professione. Il linguaggio della letteratura, il suo sguardo che disloca, forse, avrebbe potuto mostrarci o farci recuperare un senso nascosto o perduto anche della politica. Forse, avrebbe potuto farci ricominciare a capire. Ne è venuto fuori il libro spietato e fantasioso che ora il lettore, cui spetta il giudizio ultimo, ha fra le mani. Ci sembra di poter dire, però, che di certo non troverà in questi racconti le formule che la politica sembrava dover necessariamente portare con sé. Infine va detto che il titolo del libro proviene da una frase contenuta in un ormai antico discorso di Enrico Berlinguer". (dalla nota dell'editore)
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Dettagli

2008
25 novembre 2008
VI-256 p., Rilegato
9788806192723

Voce della critica

Dei racconti che nascono su commissione è una cosa meno stravagante di quanto possa sembrare, e in passato, da casi simili, sono nati libri belli e importanti. L'idea dell'Einaudi di provocare alcuni scrittori a un racconto "di politica" era buona, poteva essere ottima. È giusto e bello che gli editori stimolino gli autori a pensare a una certa cosa, a concentrarsi su un problema. Onore dunque all'editore, che ha fatto un gesto in linea con la sua tradizione di casa editrice politicamente attiva, sollecita, avvertita. Il problema sono stati, invece, gli autori. O almeno alcuni di loro. Soprattutto quelli che, pur avendo avuto il merito di accettare la scommessa, l'hanno rapidamente perduta. Diciamo subito che i più accorti sono stati quelli che l'hanno accettata solo in parte, perché hanno capito per tempo che l'argomento o il taglio non li avrebbero stimolati sul piano letterario e hanno intelligentemente ripiegato su un articolo semigiornalistico di buona scuola, ottenendo interessanti risultati. Riconosciuta la difficoltà a "inventare" sul tema prescritto, si sono attenuti ai dati della cronaca o della storia e li hanno raccontati come se scrivessero un pezzo per un giornale. La politica ha funzionato, il racconto meno o meglio, lo ha fatto in una chiave più giornalistica che letteraria.
Non è un caso che il brano migliore sia quello di un vero giornalista professionista come Paolo Di Stefano, che ha ricostruito la morte del parà Emanuele Scieri in sospetto di nonnismo tollerato da ineffabili generali, che scrivevano "Zibaldoni" mefitici e sono ovviamente rimasti al loro posto. Altrettanto ha fatto Rosetta Loy, ricostruendo la morte misteriosa del direttore del ministero delle Partecipazioni statali, Sergio Castellari, nel contesto torbido dell'affare Enimont, nel 1993. Altri intervenuti hanno invece optato per soluzioni più intermedie tra il letterario e lo storico- cronachistico. Alberto Asor Rosa, ad esempio, ha provato la strada dell'autobiografia di famiglia, raccontando la storia di suo padre, tra album dei parenti, malinconie senili per il passato e storia d'Italia tra fascismo e dopoguerra, con esiti incolori, senza smalto, da sbadiglio. Su una strada non troppo dissimile (tra invenzione e ricostruzione di fatti) si è messo Eraldo Affinati, rievocando un eccidio di civili e partigiani a opera dei tedeschi vicino a Forlì, ma ha raggiunto esiti più convincenti e intensi, convocando a rivivere i fatti una vivida pluralità di voci.
Cosa abbia voluto fare Stefano Bartezzaghi, a parte l'ironia sul politichese immarcescibile di ogni stagione e partito, invece, onestamente non l'ho capito, come non ho capito granché del breve racconto di Michela Murgia. Il pezzo di Antonio Pascale, ispirato alla speculazione e alla competizione politica nella zona dei Castelli romani, è anch'esso di ardua lettura, di non immediata decifrazione, anche se non privo di sensibilità letterarie pregevoli. Stessa cosa si potrebbe dire del racconto di Marcello Fois, che propone in modo assai tortuoso il caso di un morto sardo della guerra di Libia, restando in sospeso tra storia e narrazione. Un po' meglio fa Diego De Silva, scrivendo sbrigative pagine sul classico, mancato brigatista irriducibile, il puro scemo fiancheggiatore della lotta armata, che c'è stato dappertutto, tenuto ai margini dal terrorismo professionale e snobbato persino dalla polizia, l'unico a non aver trovato un posto all'università.
Ma c'è stato in questo libro chi ha raccolto la scommessa dell'editore e ha fatto politica e racconto insieme, scrivendo pagine che da sole valgono l'acquisto. Penso al bel racconto d'apertura di Walter Siti, che segue l'avanzata nelle istituzioni di un fascistello romano, passato dallo squadrismo della ruvida opposizione di strada al sottogoverno dei consigli di circoscrizione, e disegna un tipo umano e politico non privo di autenticità, spiegando meglio di tante analisi politologiche correnti la maggior vicinanza alla gente degli uomini (ahimè) di destra rispetto a quelli di sinistra. Come la letteratura possa far capire meglio la politica qui si coglie nettamente, perché il racconto presenta un uomo nuovo della politica attuale e ne spiega il successo con la modestia intellettuale non nascosta e con l'assenza di spocchiosità di casta. Non da meno e pur tutto diverso è il bellissimo racconto di Ascanio Celestini, centrato su un immaginario incidente all'aereo del papa, nel quale sono morti tutti i passeggeri e forse anche il pontefice, di cui però non si è ritrovato il corpo. Come spesso in Celestini, c'è un secondo narratore, il benzinaio vicino al cui distributore si è schiantato l'aereo papale, che racconta e commenta gli eventi con schietta e spregiudicata umanità.
Se da questa iniziativa editoriale dovessimo trarre indicazioni sullo stato della nostra narrativa, dovremmo dire che è malaticcio come lo conoscevamo. A meno che ci limitassimo a desumerne che la politica non attira o stimola gli scrittori di oggi (ma non è così, se si pensa a Camilleri, Tabucchi, Carlotto, che hanno affrontato l'attualità politica con piglio letterario apprezzabile). Se invece cercassimo di cavare dal libro indicazioni sulla politica ne ricaveremmo presagi ancora più infausti, notando che gli interessi dei più sono ancora rivolti indietro, al passato glorioso o inglorioso del nostro paese (dalla guerra di Libia, alla Resistenza, al terrorismo) e che pochi hanno spinto lo sguardo vicino a oggi. Chi lo ha fatto, come Siti e Celestini, ha, non a caso, ottenuto i risultati più convincenti del libro. Ma la maggior parte ha guardato indietro e non ha degnato di uno sguardo l'orribile presente. Segno che gli eventi politici debbono essere digeriti prima di entrare in letteratura? O che l'attualità non sembra sufficientemente mostruosa per la fantasia degli scrittori? O che il presente deprime e stanca, ma non coinvolge, non affascina né ripugna quanto occorre per far scattare emozioni d'autore? Ma cosa deve ancora succedere a questo malcapitato paese perché, come ha provato a fare Moretti con Il Caimano, esca fuori un bravo scrittore che lo racconti?
Vittorio Coletti

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