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Con la consueta cura filologica e la precisione documentaria che la distingue, Mariarosa Masoero ha raccolto in questo volume tutti gli scritti cinematografici di Cesare Pavese. Come scrive nella nota ai testi: "La presente edizione è stata condotta su manoscritti autografi, dattiloscritti con correzioni d'autore, abbozzi e frammenti custoditi nell'Archivio Pavese presso il Centro Interuniversitario per gli Studi di Letteratura italiana in Piemonte 'Guido Gozzano-Cesare Pavese', con sede nell'Università di Torino". Un'occasione, si può dire, per analizzare con attenzione non solo ciò che possiamo chiamare l'amore di Pavese per il cinema, a partire da un paio di recensioni giovanili su Rodolfo Valentino e su Buster Keaton e da tre saggi teorici, altrettanto precoci, piuttosto eloquenti; ma soprattutto da quello che Masoero chiama l'ultimo "mestiere" dello scrittore. Cioè il suo interesse per la stesura di soggetti cinematografici, di vere e proprie "scalette", e magari, se ne avesse avuto il tempo, di sceneggiature, che si manifestò appieno nel 1950, all'epoca del suo amore per Connie Dowling e dell'amicizia con la sorella Doris, attrici americane di secondo piano.
È un anno, il 1950, l'anno del suicidio, che lo vede "sfornare" in pochi mesi, fra marzo e giugno, ben otto soggetti, fra i quali Il serpente e la colomba (che dà giustamente il titolo al libro), inizialmente intitolato La vita bella. È un bel racconto, che avrebbe potuto diventare un film drammatico di forte impatto emotivo, con implicazioni sociali e risvolti morali, fra Matarazzo e Antonioni. E non paia inopportuno questo accostamento, di due registi italiani agli antipodi, uno popolare, l'altro intellettuale, perché proprio questo connubio di stile basso e stile alto pare sia stato uno degli elementi di fascino che il cinema esercitava su Pavese, o almeno sul giovane Pavese. Come si evince dai tre saggi Per la famosa rinascita (1927), Problemi critici del cinematografo (1929) e Di un nuovo tipo d'esteta (1930), in cui egli sosteneva, da un lato, l'artisticità del cinema propugnandone uno sviluppo esteticamente conseguente, ma dall'altro la sua popolarità: "Perché non si ripeterà mai abbastanza che il cinematografo è un'arte da folla e che la ragione della sua vitalità è appunto questa che esso ha creato un'arte nient'affatto d'eccezione (
) ma interamente popolare, che parla cioè a tutti i pubblici".
D'altronde è interessante quanto scriveva Massimo Mila nel 1958, presentando su "Cinema Nuovo" i due saggi del 1929 e del 1930: "Questa contraddizione la riscontravamo noi stessi, già allora, nei gusti e nelle predilezioni cinematografiche del nostro amico. Il cinematografo era per noi un enorme fatto di costume (
) E proprio qui si scorge la ragione del contraddittorio comportamento di Pavese di fronte al cinematografo, dovuto alla sua superiorità di artista veramente creativo su noi che gli stavamo intorno (
) In Pavese, che condivideva pienamente questa nostra infatuazione, anzi, ne era il promotore e il demiurgo, sopravviveva sempre la vigile intelligenza artistica". Che poi questo duplice interesse, dopo un ventennio di silenzio, si manifestasse appieno nei soggetti che scrisse nel 1950 è una questione che andrebbe meglio studiata; come sarebbe interessante fare un'attenta analisi comparata fra i suoi racconti e romanzi e i soggetti cinematografi, fra i personaggi e gli ambienti dei primi e quelli dei secondi, fra la "morale" degli uni e quella degli altri. Questo libro ce ne offre l'occasione: magari ripercorrendo alcune tappe della vita di Pavese in relazione al suo rapporto con il cinema, come ha fatto egregiamente Lorenzo Ventavoli nella bella introduzione.
Gianni Rondolino
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