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Sarà forse l'abitudine, o magari la necessità di alzare la voce per farsi ascoltare dai propri indisciplinati alunni di una scuola media alla periferia di Palermo, ciò che conduce Mila Spicola, contro le sue stesse intenzioni, in una trappola stilistica che depotenzia la qualità della sua argomentazione, trasformando il suo libro in un megafono che frastorna persino il lettore che abbia interesse o anche simpatia per le tesi che l'autrice avanza.
Spicola difende, gridando dati e argomenti, alcune verità: tra queste, forse la più giusta, ispirata al rispetto dei principi della nostra Costituzione, è l'asserzione secondo cui la crisi della scuola pubblica italiana non può e non deve essere affrontata in termini unicamente finanziari, con l'attenzione rivolta solo a vincoli di bilancio e con tagli di conseguenza legittimati, o peggio giustificati, sulla base di fallaci generalizzazioni e di radicati pregiudizi sul corpo docente: occorrerebbe invece che le riforme fossero ispirate anzitutto da una rinnovata consapevolezza politica del ruolo decisivo che l'istruzione pubblica riveste per l'educazione delle giovani generazioni e per la cultura di cittadini democratici, nonché da un profondo rispetto per il lavoro, valore su cui la nostra repubblica democratica è fondata. Certo questa tesi normativa e politica, nel senso più alto avrebbe meritato uno stile più consono alla sua importanza: il genere letterario a cui l'autrice sceglie di affidare le proprie riflessioni e il proprio sfogo l'epistola (a Don Milani, ai ministri Tremonti e Gelmini) si sarebbe ben conciliato con un calmo sforzo riflessivo, con una struttura argomentativa ordinata e articolata, silenziosamente pungente e retoricamente efficace. A ciò avrebbe dovuto indurla anche la fedeltà alla sua bella definizione di educazione proposta nell'ultima lettera, indirizzata agli ex alunni come il processo mediante il quale il cosmo si sostituisce al caos, permettendo all'individuo di esercitare il pensiero critico. Persa questa occasione, troppo accentuato il carattere intimistico ed emotivo del genere epistolare, Spicola espone non solo la propria costernazione per lo stato della scuola pubblica, ma anche se stessa a eventuali critiche di assenza di self-control: critiche che i più severi potrebbero corroborare sottolineando il suo stile eccessivamente paratattico, le troppo insistite ripetizioni, e le troppo insistite denunce: anche fra i meno severi cresce oggi il numero di quanti sono convinti che l'insulto, diretto o velato che sia, vada condannato, essendo tra l'altro più d'ostacolo che d'ausilio alla comunicazione, tanto pubblica quanto privata.
Un effetto presumibilmente auspicato, però, Spicola lo ottiene, forse proprio grazie a quell'immediatezza di espressione che a molti potrebbe risultare sgradita: il suo urlo di denuncia la scuola si è rotta appare sincero e tale, alla fine, dovrà apparire anche al lettore che, subito avvertito dall'autrice dell'affiliazione al Partito democratico, pregiudizialmente sospetti qualche uso pretestuoso dei problemi della scuola per dare voce ad amarezze e risentimenti di origine partitica. Benché talvolta ciò in effetti accada, non si può negare che Spicola abbia realmente a cuore soprattutto il destino della scuola e che tenti, a suo modo, di sensibilizzare l'opinione pubblica sulle crepe e sulle voragini di un'istituzione indubbiamente cruciale per la nostra società, rendendo pubblico il sentimento tragico che prova, da cittadina e da insegnante, nell'assistere al trattamento d'urto, a suo avviso mortifero, che la classe politica le riserva: il suo tanto rumore, si dirà, almeno non è per nulla (per esempio è ottima l'idea di presentare in appendice informazioni e dati statistici sulla scuola, che permettano al lettore di verificare autonomamente la sostenibilità delle tesi avanzate nel libro). Fiammetta Corradi
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