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Città aperta - Teju Cole - copertina
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Descrizione


Nato da madre tedesca e padre nigeriano, formato alla Nigerian Military School di Zaria e trapiantato adolescente negli Stati Uniti, lontano da affetti e radici, il narratore Julius, all'ultimo anno di specializzazione in psichiatria, non appartiene a nessun luogo. Quando comincia a vagare per le strade di New York, nell'autunno del 2006, lo fa con il distacco dell'outsider, la profondità dell'intellettuale e l'agio del flàneur. La migrazione degli uccelli è l'occasione per riflettere sul "miracolo dell'immigrazione in natura", ai cartelli che annunciano la chiusura della catena Tower Records fanno da contraltare le meditazioni sulla musica amata, Mahler in testa, e un acquazzone sulla Cinquantatreesima è causa di una precipitosa ritirata nell'American Folk Art Museum e della conseguente fascinazione per la pittura di John Brewster li esposta. Di casualità in intenzione, Julius si muove nelle geografie newyorchesi incontrando persone di ogni classe e cultura, vedendo scorci scolpiti o in mutamento, lasciando che ogni impressione si depositi sul fondo della coscienza e da li, come cerchio in uno stagno, si propaghi ad altri cerchi, ad altre impressioni.
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Dettagli

2013
28 maggio 2013
270 p., Brossura
9788806212216

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Marika
Recensioni: 2/5

Purtroppo ho fatto fatica a leggerlo.

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Marcello Muratore
Recensioni: 4/5

Da New York a Bruxelles, l'umanità colta nel tentativo di riconquistare l'innocenza che sembrava aver perso per sempre. In un background ebbro di antiche e moderne ipocrisie, assidua e bruciante è la corsa degli uomini verso la completa affermazione di una identità, anche attraverso i riti quotidiani di autoassoluzione. Nonostante la pacata analisi e l'apparente imperscrutabilità del giudizio dell'autore,si intravede la deriva dell'Occidente verso atteggiamenti razzisti più celati ma nondimeno subdoli, intrisi di sottili e reiterati soprusi. Come se in un congegno perfetto i suoi sofisticati meccanismi potessero essere manomessi a piacimento, in qualunque momento, per asservire la verità più conveniente al "Sistema".

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enrico.s
Recensioni: 4/5

I commenti dei due lettori che mi hanno preceduto secondo me sono un po' troppo severi. E' vero che T. Cole a volte eccede nelle divagazioni erudite che spesso sembrano ( e sono) fini a sé stesse oppure ridondanti (...quelle di Sebald non lo sono mai, e quindi, per ora, il rimando allo scrittore tedesco è prematuro), quasi a voler esibire solo il bagaglio di conoscenze dell'autore. Però, se ci si domanda: perchè Cole si è messo al computer a scrivere? cosa aveva da dirci? e ci si risponde, come ho fatto io, che il libro racconta la ricerca del narratore (evidentemente qui coincidente con l'autore) non tanto delle proprie radici, bensì della propria identità di uomo, resa (forse) incerta o conflittuale, dall'essere nato in Nigeria da padre nigeriano e madre tedesca, cresciuto in Africa sino all'adolescenza e poi divenuto americano d'adozione e d'elezione (...meglio: newyorchese), ecco che il libro assume una valenza letteraria tutt'altro che banale. Al contrario, per me è stata una lettura coinvolgente. E poi Cole scrive davvero bene (nonostante un uso un filo troppo insistito di metafore e simbologie). In buona sostanza: forse questo non è un capolavoro assoluto, però certo è un'ottima lettura, molto sopra la media del panorama letterario attuale.

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Voce della critica

  È costellato di incontri fortuiti ed epifanie destabilizzanti il lento vagabondare randagio di Julius, protagonista del pregevolissimo romanzo d'esordio dello statunitense di origine nigeriana Teju Cole, restituito ai lettori italiani dalla traduzione agile e puntuale di Gioia Guerzoni. Studente tedesco-nigeriano all'ultimo anno di specializzazione in psichiatria, Julius attraversa la città di New York prevalentemente di notte, lasciando che "passo dopo passo" sia la città a "farsi strada" nella sua vita, piuttosto che il contrario. La sua è una camminata spossante e al contempo terapeutica, talvolta persino lisergica (tanto da indurre lo sconosciuto impiegato di un ufficio postale a riconoscere il suo occasionale cliente come un "visionario") e utile a compensare il rigore e la disciplina di un lavoro che non ammette errori. Ed è alla pratica della psichiatria – l'arte del "non fare danni" – che si dedicano pagine di intensa riflessione. Il suo mestiere, afferma Julius, ha a che fare con l'idea di "vedere il mondo come un insieme di tribù", ma se la categoria dei cosiddetti normali è cerebralmente prevedibile sin nelle sue multiformi diversità sociali, quella dei pazzi appare per lo più omogenea persino a molti addetti ai lavori. Ecco dunque il primo fattore che lo differenzia dagli altri studenti: gli insegnamenti impartiti educano a "diffidare della filosofia", a rifiutare ogni forma d'olismo, mentre lui, al contrario, insiste nel "pensare all'anima", a indugiare nel dubbio. Sicché gli sforzi di psichiatri (e artisti) di "usare segni esterni come indizi di realtà interiori" lo conducono alla convinzione che non sempre esista un nesso tra lo spirito e la materia tangibile. Cosa accade, si domanda, quando la fonte di informazione primaria sulla mente (che è la mente stessa, notoriamente "opaca a se stessa") si autoinganna? "Quello che sappiamo", conclude, "è molto meno di quello che rimane nell'oscurità, e il fascino e il limite del nostro lavoro sta proprio in questo enorme limite". È più che un'intuizione quella di Julius, il quale nella chiusa del romanzo scopre, grazie all'incontro con un'amica dei vecchi tempi nigeriani, il suo personalissimo e "tortuoso inganno". Rimasto per anni sommerso in un'area di opacità, ora lo inchioda al ruolo di "cattivo" in una versione altrui della sua stessa storia. Anche la mappatura della città di New York procede con la stessa anomala metodologia alla quale si affida per studiare il cervello. Spazio urbano sfuggente e in perenne de/formazione, la città rappresenta per Julius (qui nei panni di street photographer come lo stesso Cole) un testo di segni ben assortito e dunque difficile da decifrare. La città è, per dirla con Mario Maffi, un "mosaico di 'inner cities'", tutte a sé stanti, tutte necessarie per completare, attraverso un'operazione non già di fusione quanto di accostamento o di incastro, la Ur-city d'America, la più vasta matrice di sensi possibili. Nel suo reticolo ordinato di strade (a loro volta costellate da simboli architettonici che fanno da antenna per un possibile orientamento interno), New York appare immutabile e mai uguale a se stessa, labirinto – tanto fisico quanto esperienziale – in continuo movimento, come chi la abita o la visita. Del resto, sin dagli albori dell'esperienza americana con la puritana "City upon a Hill" di John Winthrop, la città si impone come locus ideale di indagine filosofica. Realtà oltremodo contraddittoria, New York City ne è un esempio eccellente. Basti pensare agli anni venti dell'Ottocento (sulle cui antinomie Teju Cole riflette senza alcuna reticenza) quando, con l'inaugurazione del nuovo genere della short story,la città e il rapporto con essa – simbiotico o conflittuale, deterministico o solo prospettico – rivestono un ruolo centrale per la letteratura anglo-americana. Per comprenderne la portata è sufficiente pensare alle peregrinazioni del Geoff Crayon di Washington Irving, al disorientamento dell'uomo della folla di Edgar Allan Poe, o ancora all'alienazione del Bartleby di Melville, tutti antenati letterari eminenti del nostro sradicato e spaesato Julius. E, se all'interno di questo gigantesco caleidoscopio il protagonista si aggira fra interstizi e frontiere virtuali, la stupefacente vitalità che nel frattempo respira si traduce in narrazione: "Incredibile quante piccole storie la gente si portava dietro in ogni angolo della città". Ne raccoglie molte di quelle storie e le narra attraverso immagini di finissima grana: al ritratto di un suo vecchio professore ormai morente, si alterna quello di un solitario e anonimo podista della maratona appena conclusa; ai dipinti muti (e sordi) appesi alle pareti dell'American Folk Art Museum si contrappongono le figurine dei ciechi spettatori – prevalentemente bianchi – a un concerto di Mahler alla Carnegie Hall; al cameo dedicato a una non più giovane turista ceca incontrata in un bar di Bruxelles ("il doppio di New York" e non a caso "città aperta" anch'essa, dove Julius si reca sulle tracce della nonna materna) succede il profilo di Farouq, giovane gestore arabo di un internet café al quale invierà, come risposta alle sue inaccettabili posizioni estremiste, Cosmopolitismo di Appiah. Quasi a sancire la comune, atroce e provvidenziale, condizione di creature di passaggio. E olisticamente, ancora arrovellandosi su tormenti mai risolti, Julius impara a osservare il volo degli uccelli migratori e a domandarsi se esista un nesso con i suoi vagabondaggi, se esista "una linea" che lo colleghi al suo ruolo in tutte quelle storie.

Daniela Fargione

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Conosci l'autore

Teju Cole

1975

Scrittore, storico dell'arte e fotografo, è nato negli Stati Uniti e cresciuto in Nigeria. Ora vive a Brooklyn. Città aperta, il suo primo romanzo, (pubblicato in Italia da Einaudi nel 2013), ha vinto il PEN/Hemingway Award, il New York City Book Award for Fiction e il Rosenthal Award, ed è risultato finalista al National Book Critics Circle Award, il New York Public Library Young Lions Award, e l'Ondaatje Prize della Royal Society of Literature. Inoltre, è stato giudicato uno dei migliori libri dell'anno da più di venti testate, fra le quali «The New Yorker», «The Economist», «The Daily Beast», «Los Angeles Times» e «New York magazine». Nel 2014 esce in Italia, sempre per Einaudi, Ogni giorno è...

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