"Di fronte a un'immagine, per quanto antica possa essere, il presente non smette mai di riconfigurarsi (..) Di fronte a un'immagine, per quanto recente, contemporanea possa essere, il passato al tempo stesso non smette mai di riconfigurarsi, poiché quell'immagine diventa pensabile solo in una costruzione della memoria, se non dell'ossessione. Di fronte a un'immagine, infine, dobbiamo riconoscere con umiltà che essa probabilmente ci sopravvivrà, che siamo noi l'elemento fragile, passeggero, e che è l'immagine l'elemento futuro, l'elemento della durata. L'immagine ha spesso più memoria e più avvenire di chi la guarda". Con queste considerazioni Georges Didi-Huberman (Storia dell'Arte e anacronismo delle immagini, Bollati Boringhieri, 2007) ci rivela quanto il tempo di un'immagine sia un tempo anacronistico, un tempo nel quale passato, presente e futuro si mescolano in un vortice dialettico che non permette di rimanere ancorati a una scansione lineare rigida che induca a un accanimento filologico. La cosa rischierebbe di deprivare l'immagine di tutte le sue sfumature; sia quelle legate alla raccolta di istanze della memoria (privata, collettiva, ma anche ancestrale) sia quelle connesse con le pratiche e le culture della contemporaneità alla quale appartiene, sia, infine, quelle in cui si prefigura nell'immagine stessa il suo futuro, ovvero lo sguardo con cui verrà guardata e vissuta dai suoi posteri. L'approccio con cui Muzzarelli ha deciso di mappare alcune delle più significative tappe della storia della fotografia dell'Ottocento, sembra fare tesoro di questa prospettiva anacronistica, in particolare perché la sua è prima di tutto una storia delle concettualità messe in campo dall'avvento della fotografia come produttore di immagini la cui peculiarità è il prelievo del proprio materiale di partenza direttamente dalla realtà. Il presupposto è quindi basato sull'idea che, se la macchina fotografica produce segni in stretta connessione indicale con il soggetto delle fotografie (con tutti i suoi esiti anche contraddittori e paradossali) questo vale oggi come nell'Ottocento e le conseguenze concettuali di una fotografia come impronta del reale devono aver funzionato fin dall'inizio. Ovviamente con minore o maggiore consapevolezza da parte dei fotografi a seconda degli episodi. La struttura del libro (corredato di una prefazione di Claudio Marra) è quindi concepita analizzando vari casi di fotografi e fotografie dell'Ottocento dal punto di vista degli usi e dei concetti specificamente legati al fotografico, quel complesso di idee e comportamenti conseguenti alla natura di segno traccia della fotografia. Si dimostra così, attraverso una serie di schede che compiono balzi in avanti nel tempo, come queste idee abbiano continuato a riverberare anche in episodi successivi della storia della fotografia, fino a balenare nella contemporaneità per poi reinvestire con una luce nuova, in una sorta di ritorno, gli studi sulle pratiche e i concetti della fotografia ottocentesca. Sono allora le fotografie dell'Ottocento a essere più moderne di quello che sembrano, oppure sono i progetti più contemporanei a noi ad avere più radici di quelle che crediamo, affondate negli esperimenti di più di un secolo fa? La risposta è proprio nella dialettica anacronistica, in quel vortice segnalato da Didi-Huberman. Un rimescolamento che non fa più apparire azzardato, ma anzi estremamente fecondo il paragone-dialogo fra l'immagine unica della Polaroid e il dagherrotipo, fra l'autoritratto come un annegato di Hippolyte Bayard e le pratiche performative di fronte all'obiettivo che vanno da Fortunato Depero alla Body Art, fino al travestimento di Cindy Sherman e Yasumasa Morimura (associabile anche all'avventura di continua incarnazione immaginaria costituita dalle fotografie di travestimento della Contessa di Castiglione), fra le performance in photomatic di Franco Vaccari, Arnulf Rainer e Andy Warhol e il formato carte de visite sviluppato da Eugène Disdéri, fra la nascita dell'istantanea e dei comportamenti sociali da essa indotti con l'arrivo della Kodak e lo stile snapshot e diaristico di autori come Larry Clark, Nan Goldin, Wolfgang Tillmans. E l'elenco potrebbe continuare. Si può naturalmente concordare di più o di meno sui singoli accostamenti proposti dall'autrice, ma quella che rimane evidente è la bontà dell'impostazione concettuale nel suo complesso: la fotografia è una pratica estetica (figlia della tecnica moderna e in costante aggiornamento tecnologico) che riprende tutta una tradizione un po' sotterranea di arte dell'impronta che parte dalla preistoria delle mani in negativo nelle grotte di Lascaux, passando dai calchi funerari per arrivare alle avanguardie: essa è quindi, fin dalla sua nascita, gravida di sovrapposizioni temporali. Muzzarelli le analizza, seppure brevemente, senza spaventarsi, interrogandole nella consapevolezza che sia necessario farsi trascinare nel vortice: ne solca però i mulinelli con una solida e sperimentata imbarcazione teorica, quella del fotografico. Sergio Giusti
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