Apparso in Francia nel 2012, esce finalmente anche in Italia la bellissima raccolta di saggi di Jean Starobinski dal titolo L'encre de la mélancolie. Il volume raccoglie per la prima volta, a cura di Fernando Vidal, i saggi che su questo tema l'autore ha redatto nel corso di più di mezzo secolo, compresa l'irreperibile e pionieristica tesi di dottorato del 1960, l'Histoire du traitement de la mélencolie. Starobinski, psichiatra di formazione, medico all'ospedale di Ginevra e di Losanna, si guarda bene dal ricondurre questa malattia "saturnina" all'indistinto ambito delle depressioni o di altri disturbi bipolari. L'ampio indice del volume ci fa piuttosto pensare a una sorta di skyline che, con il procedere della lettura, si trasforma in un'indagine comparata, in una variegata declinazione di questo tema che affonda le origini nella civiltà greca. Così Sofocle, ad esempio, utilizza l'aggettivo meláncholos per indicare la tossicità letale del sangue dell'Idra di Lerna, di cui Ercole ha imbevuto le sue frecce. Il "veleno malinconico" è un fuoco oscuro in cui si sommano i poteri nefasti del colore nero e le proprietà corrosive della bile. Tristezza e paura rappresentano per gli antichi i sintomi principali dell'affezione malinconica, che designa un umore naturale che però può anche non essere patologico. Tuttavia, il disordine malinconico comporta qualche privilegio, conferendo una superiorità spirituale alle vocazioni eroiche e geniali, a quelle poetiche o filosofiche. Questa convinzione, presente nei famosi Problemata di Aristotele, eserciterà una grande influenza sulla cultura occidentale. Si pensi ad esempio alle ricerche che, a partire da Karl Giehlow, Aby Warburg promuoverà dal punto di vista figurativo e antropologico attorno agli anni venti del XX secolo. Non a caso, queste indagini sfoceranno nel 1923 nel saggio di Fritz Saxl ed Erwin Panofsky dedicato a Melanchonia I di Albrecht Dürer, e poi nel celebre e ambizioso Saturno e la melanconia di Raymond Klibansky del 1964. Ovviamente, questi sondaggi nell'ambito della cultura visiva rientrano solo parzialmente negli interessi di Starobinski (fatta eccezione per Il ritratto del dottor Gachet di van Gogh e per le brevi osservazioni su De Chirico). La tesi di dottorato del 1960 anticipa piuttosto le ricerche che, agli inizi degli anni ottanta del secolo scorso, Jackie Pigeaud ha dedicato a questa maladie de l'âme, anche se già Werner Jaeger aveva mostrato che tutta la medicina ellenica consiste in un'educazione, in una vera e propria psicoterapia, a cui si associa una cura rivolta verso cause puramente somatiche. A partire da Asclepiade ha inizio una pratica per cui le cause morali hanno una grande influenza sulla struttura fisica dell'organismo, ma è solo con Galeno e la sua scuola che viene consolidata la definizione di malinconia che farà testo fino al XVIII secolo e oltre. Essa ritiene che la malinconia sia originata dalla bile nera, il cui eccesso può manifestarsi e svilupparsi in diverse regioni dell'organismo, provocando ogni volta nuovi sintomi. Dal medioevo in poi, nelle allegorie che rappresentano il temperamento malinconico o i figli di Saturno, si affaccia l'eremita. Il temperamento malinconico predispone per un verso alla contemplazione (si pensi alle tre versioni delle Tentazioni di sant'Antonio di Flaubert), dall'altro a una situazione che si presuppone saldamente connessa alle influenze di Saturno. In tal modo, sullo sfondo di un sapere medico antico che era stato per lo più trasmesso in modo spurio, il medioevo finisce per stabilire una rete di corrispondenze e di analogie cosmiche. In tale contesto il De melancholia di Costantino Africano rappresenta un anello di congiunzione tra la scienza della tarda antichità e il medioevo. Ma è solo con il Rinascimento che ha inizio l'epoca classica della malinconia. Sotto l'influenza del saturnino Marsilio Ficino e dei neoplatonici fiorentini, la malinconia, intesa come temperamento, diventa il segno distintivo del poeta, dell'artista, del grande principe e soprattutto del vero filosofo. Nel De vita libri tres (1489),Ficino detta la sua arte di vita destinata agli studiosi, e insegna come trarre profitto dall'influenza positiva della malinconia e come scongiurare i pericoli che sempre l'accompagnano. La lunga sopravvivenza della cosiddetta "atrabile" che si protrae nei secoli successivi non deve sorprendere: di fatto essa non è altro che la condensazione immaginosa dell'esperienza dell'uomo malinconico. Finché la scienza non si doterà di precise procedure anatomiche e preparati chimici, sarà difficile sradicare la convinzione che l'atrabile non sia altro che un'idea spirituale, sicché l'umore nero resterà a lungo nei secoli la rappresentazione più soddisfacente di un'esistenza che risulta in realtà dominata dalla preoccupazione per il corpo ed è resa greve dalla mestizia. Solo quando la psicologia muterà il suo linguaggio e i suoi procedimenti essa potrà andare oltre la dottrina umorale, di cui la malinconia rappresenta appunto una sopravvivenza. La teoria della malinconia era sorta nel momento in cui filosofi e medici si proponevano di spiegare paure e disordini dello spirito con una causa naturale che escludeva ogni interpretazione mitica. Difatti, non erano gli dèi, né i demoni, né l'oscura notte a turbare la vita degli uomini. Essi erano invece vittime di una sostanza che si accumulava in eccesso nei corpi. Ma a differenza del sangue, del flegma e della bile gialla, la bile nera non aveva una concreta evidenza, benché per secoli si sia creduto di riconoscerla nelle evacuazioni e negli sbocchi nerastri di sangue digerito. La sua esistenza è stata più sognata che osservata, le sue qualità fisiche e i suoi poteri morali sono stati postulati più dall'immaginazione che dalla realtà, un'immaginazione che trasferisce nella materia gli attributi di forze ostili. Ma, a ben vedere, ciò non implica ancora necessariamente che gli psicologi moderni rompano con questa tradizione letteraria e scientifica. Noto è il caso di Freud, che scorge nella malinconia la conseguenza di una scelta "oggettuale" narcisista, alla quale si aggiungono il ritiro della libido nell'Io e la sua identificazione con un oggetto perduto. Ma anche Hubertus Tellenbach e Ludwig Binswanger (nella cui clinica Warburg fu curato) hanno continuato a definire la malinconia come una rimanenza, una retentio che va a deteriorare il rapporto con il presente e con ogni progetto orientato verso il futuro. Affascinante caleidoscopio di autori e di opere (da Tasso a Mandel'tam; da Montaigne e Voltaire a Rousseau, all'ironia romantica di Hoffman e alle fiabe teatrali di Gozzi; da Cervantes a Goethe; da Madame de Staël a Pierre Jean Jouve; dalla poetica di Baudelaire, che più di ogni altro ha interrogato lo sguardo delle statue, fino a De Chirico, Caillois e Bonnefoy), questa splendida raccolta di saggi ci pone con la sua ricchezza un interrogativo ancora attuale: se il vocabolario della psicoanalisi offre ai nostri sentimenti un modello possibile del loro significato, e se la verbalizzazione dell'esperienza affettiva si compenetra con la struttura di un vissuto che fa tutt'uno con la parola, allora l'unica strada consiste veramente nel cercare una genealogia delle parole tramite cui l'emozione e il pathos vengono enunciati? È veramente questa l'unica soluzione che Starobinski ci prefigura? Non esiste forse nella nostra tradizione europea anche una sintassi figurativa che può essere studiata come codice, grammatica o fisica del pensiero? A questo punto il discorso dovrebbe davvero fare i conti non solo con il senso delle ricerche linguistiche, figurative e antropologiche di pionieri come Warburg, ma anche con la nostra realtà quotidiana.
Maurizio Ghelardi
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