Se glielo avessero detto, forse non ci avrebbe creduto, lui che "non riusciva a convincersi di poter fare lo scrittore" e che conosceva bene "i giochi tanto chiari quanto scorretti" dell'industria culturale. Eppure, a più di vent'anni dalla morte, Einaudi ha deciso di ristampare uno dopo l'altro quasi tutti i suoi capolavori e, da ultimo, anche Il lanciatore di giavellotto, il romanzo più alieno dallo "sperimentalismo trasgressivo"(Giudici) che contrassegnava invece la produzione precedente. Lui è Paolo Volponi, considerato poeta e scrittore "difficile"(Giudici), "tra virgolette"(Luperini),uno che scriveva nei ritagli di tempo per "passione morale"e per "vocazione politica" e che nel 1963 aaveva definito la scrittura "una ribellione e una notevole fatica". Pubblicato nel 1981, Il lanciatore di giavellotto è ambientato nella Fossombrone degli anni trenta e racconta la vicenda del giovane Damìn (all'anagrafe Damiano Possanza), ultimo discendente di una nota famiglia locale di vasai. Nelle intenzioni di Volponi il romanzo, in aperta polemica con le tendenze della narrativa di quegli anni, doveva rifiutare "sottosistemi, tangenti"ed "eserciziletterari"per riuscire più "tradizionale" e "commestibile"(Giudici). E, infatti, l'incipit, in cui la prosa a più riprese cede il passo alla poesia, è più che tradizionale con quel quadretto idillico dominato dalla "matassa grigia"di una "nuvola che si opponeva al sole"e dalla "macchia verde"del "fico che occupava la mente ed il pensiero". Basta, però, addentrarsi nella lettura anche soltanto di qualche riga per iniziare ad avvertire una certa inquietudine, che nel corso della narrazione diverrà nota sempre più insinuante. Suscita inquietudine una famiglia in cui il nonno, "zazzeruto e vigoroso", evitadi guardare la nuora, in cui la madre, bellissima e discinta,colpisce le stoviglie "con uno strano accanimento", in cui la sorella, "tutta dorata e senza mistero", è considerata "di proprietà"e in cuiil padre, di cui non si sapeva "dove fosse e come fosse fatto", viene etichettato come "elemento impenetrabile ed ostile". Suscita inquietudine l'immaginario del piccolo Damìn che, a nove anni, considera ancora la madre "un'amorosa proprietà", un'onda caldain cui fluttuare in uno stato di semi-incoscienza, che si percepisce ancora avvolto con lei in "una coltre soffice e invadente, che affida la sua felicità all'immagine di se stesso attaccato al petto della madre, con una mano ficcata tra le due mammelle e con l'altra protesa a cercare di toccare la faccia del nonno, la sua bocca e i suoi baffi". Suscita inquietudine un calzolaio comunista, che s'improvvisa maestro di vita e impartisce a Damìn un'educazione erotico-politica dai contenuti discutibili. Suscita inquietudine, infine, un gruppo di pari, "tutti felici della loro madre, tutti contenti e tutti uguali, capaci di farsi le seghe tutti insieme, di inseguire le ragazzette, di cacciarle dentro i portoni"e, persino, "di abbracciarle strette nei punti più segreti dei vicoli e delle strade". Il grande dramma del piccolo Damìn, già preannunciato in ciò che di torbido, di malato, di patologico trasuda dalla prosa calda ed avvolgente delle prime pagine, si compie però nella grande scena, quella in cui nottetempo, dall'alto del fico, assiste all'amplesso della madre con il fascistissimo Marcacci, "l'uomo dal pugnale d'argento", e la sente "ansare e mugolare e agitarsi e sciogliersi in infiniti sospiri", restando intrappolato in quell'inattesa visione. Da quella scena la vicenda "si addipana e addipana"il lettore fino ad una conclusione, che squaderna il dramma e lo risolve, catapultando Damìn non solo nel filone degli eroi volponiani che si contraddistinguono per essere autentici rappresentanti dell'utopia e della follia dell'uomo postmodernoma, più in generale, nel novero di quegli adolescenti problematici che, incapaci di accettare se stessi e la realtà, scelgono un epilogo tragico. Al di là delle questioni dibattute per anni dalla critica letteraria, a colpirci, a darci la sensazione di compiere la "traversata di un incubo" (Fofi), ad irretirci pagina dopo pagina, ancora oggi, è la straordinaria attualità dei temi centrali del romanzo, ossia il corpo e la storia. Per bocca del vecchio Damiano, strenuo difensore della produzione artigianale, ostile all'industria, alla logica del profitto, al consumismo e avverso al fascismo e alle sue manipolazioni, Volponi esprime la sua concezione della storia che, lungi dall'essere intesa come cammino lineare, è invece colta in tutte le sue ineluttabili contraddizioni. Quanta verità nelle parole che grida al figlio Dorino, quando vorrebbe rompere la tradizione e ammodernare l'azienda di famiglia ("Ma quale delle nostre donne cucinerà nell'alluminio? Senza sapore...tutto, tutto uguale, cotto allo stesso modo")e quanta ineluttabilità nelle parole del figlio ("Bisogna mettersi a produrre"), interprete ingenuo di un destino già scritto!È lo scontro tra il mondo ancestrale, mitico, simbolico degli avi, quello scandito dal ritmo delle stagioni e delle ore contro la modernità dell'industria, della produzione in serie, del tempo dell'orologio e dei ritmi assillanti della produzione, quella stessa battaglia combattuta e persa un secolo prima dal vecchio Padron 'Ntoni nei Malavoglia. E, come nel romanzo verghiano, anche in quello di Volponi l'antinomia si traduce nel gioco sapiente dei punti di vista e del registro linguistico, mitico-simbolico quando il narratore guarda alla realtà con gli occhi del vecchio Possanza e logico-referenziale, quando invece lo fa con gli occhi di Dorino, di Marcacci o di chiunque condivida la stessa logica. Accanto alla storia è il corpo l'altro indiscusso protagonista del romanzo. Con il grande drammadel giovane Damìn Volponi ha dato voce al disagio dei corpi post-moderni, corpi sovversivi,corpi che esprimono "disagio, alienazione, perdita di senso"(Fiorani), corpi che sono "la nostra angoscia messa a nudo, la nostra estraneità"(Nancy). Il corpo di Damìn è, infatti, un corpo "senza giudizio, né gusto", un corpo reificato, "una specie di macchina senza tempo e senza corrente", chiuso nel proprio recinto claustrofobico, ridotto ad un unico organo (il pene), ossessivamente fissato in un solo gesto (la masturbazione) e in un solo pensiero (la grande scena, il grande dolore),un corpo malato che somatizza il disagio di relazioni interpersonali, pericolosamente sospese tra i poli opposti del piacere e del dolore, dell'amore e dell'odio, dell'attrazione e della repulsione. E, come nel capolavoro verghiano, anche nel caso del Lanciatore di giavellotto il finale resta aperto sul possibile ed è parzialmente risarcitorio di una vicenda, che nel penultimo capitolo raggiunge la sua punta massima di tragicità: il vecchio Possanza ribadisce al calzolaio Occhialini il suo "credo" ("Chi lavora con giudizio e bravura, soprattutto con le mani, si salverà anche questa volta") e lo stesso fa Occhialini che, ribattezzatosi Damìn, consegna alla letteratura il ricordo di uno "sciagurato giovane caduto vittima della società borghese"e a noi la chiave di lettura del romanzo. Simona De Simone
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