Con l'ironica perspicacia che gli era propria, Giovanni Macchia osservava come le Massime di La Rochefoucauld si adattassero bene sia ai trasparenti foglietti dei Baci Perugina che ai ponderosi volumi della collana dei "Grands Ecrivains de la France". La complessità di questo capolavoro della moralistica seicentesca, che continua a intrigare critici e lettori, sta infatti nella sua duplice natura. Gioco di società, di una società che si dilettava con le parole e inseguiva definizioni brillanti (nel secolo in cui nasce la moderna lessicografia), la massima condensava nell'incisività della forma breve e del frammento tutta la sottigliezza ludica dell'esprit mondano. Ma il pensiero che informava la cultura dei salotti del secondo Seicento si nutriva di quel pessimismo di stampo agostiniano cui il neostocismo della prima metà del secolo aveva ceduto il passo. È noto il frontespizio della prima edizione (1665) delle Massime: un amorino strappa la maschera a un busto di Seneca e addita il volto ora nudo, sofferente e aggrottato, del filosofo. Questa "demolizione dell'eroe", per riprendere una formula di Paul Bénichou, favorita dall'assolutismo di Luigi XIV, portò la società mondana e aristocratica a trovare rifugio e compenso nell'elitismo agostiniano. Divertimento e pessimismo, gioco formale di una cerchia galante e scandaglio spietato dell'animo umano: le Massime di La Rochefoucauld pari di Francia, oppositore di Richelieu e poi di Mazzarino, frondista deluso fanno interagire raffinate e crudeli riflessioni sull'amore e sulle donne (degne appunto dei baci perugina) e affilati e altrettanto crudeli pensieri su un altro amore, l'amor proprio, vero protagonista dell'opera: padrone di tutte le passioni, l'amor proprio seduce, lusinga, distorce le prospettive, fa scolorare le virtù in vizi. Così lo descriveva, con glaciale minuzia, una lunga massima soppressa nelle edizioni successive alla prima: "L'amor proprio è l'amore di se stessi, e di ogni cosa per sé (
) Nulla è (
) nascosto come i suoi propositi, nulla astuto come i suoi comportamenti (
). Non si può sondare la profondità né fendere le tenebre dei suoi abissi". Ma è nelle massime più concise, fulminanti, che gli inganni dell'amor proprio acquistano maggior risalto, complici le risorse retoriche della forma breve antitesi, negazioni restrittive, affermazioni categoriche, formule concessive, costruzioni comparative: "L'amor proprio è più accorto del più accorto uomo di mondo"; "L'amor proprio accresce o diminuisce ai nostri occhi le buone qualità dei nostri amici in proporzione con la soddisfazione che ci danno; e giudichiamo del loro valore dal modo di comportarsi con noi"
E la celeberrima epigrafe della quarta edizione (1675) avvertiva da subito quali ombre queste massime avrebbero proiettato sul cuore dell'uomo: "Le nostre virtù non sono il più delle volte che vizi travestiti". L'edizione delle Sentenze e Massime morali curata da Carlo Carena (il testo è quello definitivo del 1678) ha il pregio del rigore filologico, nonostante, purtroppo, gli innumerevoli refusi. L'Introduzione chiarisce la storia dell'opera (genesi, manoscritti, edizioni) e sottolinea bene come il progressivo lavoro compiuto dall'autore abbia dato un esito "splendido nel prosciugamento, nell'approfondimento, nell'aggravamento del pessimismo e nella limpidezza dell'espressione". Lavoro che l'apparato di note, dove vengono riportate le varianti dei diversi manoscritti e delle diverse edizioni, contribuisce a valorizzare. Il volume comprende le cosiddette "massime soppresse" (dalla prima edizione) e quelle presenti solo nell'edizione olandese (1664), ed è completato da un'appendice di testi pubblicati postumi che presentano attinenze con le Massime, da una Tavola delle concordanze, e, in apertura, da un saggio di Jean d'Ormesson. La traduzione di Carlo Carena testimonia di una rara sensibilità alle sottili sfumature di significato della lingua secentesca: humeur è giustamente reso talvolta con capriccio, talvolta con temperamento constance con resistenza o con fermezza; sociéte con società o con associazione. Merita infine di essere segnalata la bella scelta delle illustrazioni, brillantemente commentata da Yara Mavidris e Stefania Pico: alla Vanitas di Nicolas Régnier in copertina rispondono, in contrappunto o in consonanza, i particolari (simbolicamente: i frammenti
) di una serie di ritratti: quello ottocentesco di La Rochefoucauld (Théodore Chassériau), quelli di Richelieu e Mazzarino (Philippe de Champaigne), di alcuni rappresentanti della società mondana Mme de Sévigné, sua figlia Mme de Grignan, Bussy-Rabutin ma anche, non a caso, quello di una monaca di Port-Royal. Mentre, quasi al centro del volume, un dettaglio dell'Allegoria della Simulazione di Lorenzo Lippi è allusione trasparente al fondo oscuro del cuore umano messo a nudo da colui che Macchia definì "l'impassibile arciere". Barbara Piqué
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