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Vincitore del Premio Nazionale di Cultura Benedetto Croce 2020, sezione Saggistica
La Shoah, lo sterminio degli ebrei d'Europa da parte del nazismo, è una vicenda la cui efferatezza non ha precedenti. Ma per rendere conto di questa tragedia, quanto è importante il ruolo dei testimoni e quanto quello della storiografia?
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“Storia senza perdono”, incentrata sulla Shoah, non entra tanto nel merito dei tragici eventi del genocidio, ma si concentra piuttosto sul ruolo che hanno svolto testimonianze, storiografia e prodotti culturali nel mantenerne intatta la memoria e nel trasmetterla ai posteri. Filo conduttore dell’intero saggio è l’osservazione di come, all'iniziale reticenza del dopoguerra (sia delle autorità che delle vittime, convinte che fosse meglio dimenticare) sia seguito un progressivo diffondersi delle testimonianze sullo sterminio, accompagnato spesso da fenomeni spiacevoli, come i “falsi sopravvissuti”, che, approfittando della crescente visibilità della Shoah, lucrano su un vittimismo ipocrita. È per questo che l’autore ammonisce a non trascurare il valore della ricerca storiografica, indispensabile per non far perdere credibilità ai veri reduci e alla loro storia. In quest’ottica l’autore si sposta agevolmente da un argomento all'altro e, in poche più di 90 pagine, riesce a sviluppare molte tematiche: tra tutte la possibile correlazione tra la cosiddetta “spettacolarizzazione della Shoah” (l’aumento di libri, film e serie TV sull'Olocausto) e la parallela preoccupante crescita del negazionismo. Nonostante un linguaggio a tratti complesso e alcuni riferimenti culturali difficili da cogliere, Barberis, con considerazioni originali e innovative, fa riflettere il lettore e apre nuovi e inesplorati scenari su una questione sempre attuale.
Sessanta pagine di testo, venti pagine di bibliografia, il tutto a grandi caratteri tipografici, per un libretto che nulla di nuovo presenta e che ha tutto l'aspetto di una scontata operazione editoriale, a cominciare dal titolo.
L’autore si interroga sul ruolo dei testimoni diretti della Shoah, sul loro imprescindibile coinvolgimento nella tragica vicenda dell’olocausto, e sugli inevitabili episodi di censura, autocensura, rimozione che possono aver influito nelle loro deposizioni. Barberis sottolinea quanto le ricostruzioni di un passato angoscioso possano risultare instabili, deviate da vergogna, pudore, sensi di colpa, versioni consolatorie, romanzesche o addirittura autocelebrative: proprio perché individuali e soggettive. Se il processo di Norimberga era rimasto imbrigliato in un esame burocratico di documenti impersonali di scarsa risonanza emotiva, quello di Gerusalemme a Adolf Eichmann del 1961 riuscì a dare voce all’orrore dei campi di sterminio, esibendo pubblicamente sia le sofferte dichiarazioni degli scampati sia le spietate immagini fotografiche dell’abominio nazista. Da allora moltissimi romanzi, film, opere teatrali e programmi televisivi hanno avuto il merito non solo di informare il grande pubblico, ma anche di turbarlo, di farlo indignare e di proporgli interrogativi ineludibili. Ma “oltre una palpitante emozione, c’è bisogno di tanta ragione”, ed è quindi compito della storia compiere una ricerca e un’analisi puntuale, asciutta, non retorica sui sintomi, le manifestazioni e le cause dell’antisemitismo e del razzismo che hanno portato alla persecuzione contro gli ebrei, in modo da creare una memoria collettiva capace di evitare il ripetersi in futuro di eccidi ed efferatezze simili. Poiché i testimoni oculari dell’Olocausto stanno progressivamente scomparendo, potremmo rischiare oggi l’oblio di un catastrofico crimine storico, “flagello europeo più pericoloso e mortale della peste”, che deve invece essere continuamente rievocato e fatto conoscere alle nuove generazioni, in modo che nessuno possa permettersi di negare, relativizzare o assolvere. Walter Barberis è perentorio nel declinare ogni proposta di assoluzione o conciliazione con il regime nazista: nessun perdono.
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