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Uno spaccato di vita dei kibbutzim israeliani degli anni '50, con la delicatezza di Oz. Vale la pena per farsi un'idea contro i pregiudizi e per un messaggio che, comunque, per chi lo sa cogliere, è di speranza.
Sinceramente l'ho trovato tedioso, ripetitivo e lento......si può tranquillamente dimenticare o, meglio, non leggerlo.
Meglio di qualsiasi saggio sull'esperienza dei kibbutz (Bettelheim a suo tempo aveva scritto "I figli del sogno" per difenderne il modello educativo). L'eterno conflitto fra il diritto dell'individuo a svilupparsi liberamente e le esigenze della comunità: una comunità chiusa, in questo caso, quanto meno dal punto di vista etnico (arabi non ce ne sono nei kibbutz, mentre nelle città israeliane sì). Conflitto portato all'ennesima potenza dall'ideologia e dalle dure storie personali, specialmente nella generazione dei fondatori, spesso scampati alla Shoah. Esemplari due storie fra le otto contenute nel libro. Quella del bambino di cinque anni che non vuole dormire nella casa dei bambini, dove gli altri bambini lo tormentano, e disperatamente fugge per stare vicino al padre, e la rabbia del padre che per difenderlo arriva a picchiare ingiustamente un altro bambino: il tutto nella ribadita "coerenza ai principi" della madre puericultrice e del Consiglio generale del Kibbutz. L'altra storia, quella del vecchio ciabattino anarchico olandese, malato ai polmoni, che si ostina a non abbandonare il lavoro, nonostante il parere contrario del Kibbutz, che nel suo interesse vorrebbe destinarlo ad un lavoro meno nocivo. Lui per coerenza era uscito da un primo kibbutz, perché ne disapprovava il permesso accordato ad alcuni superstiti di trattenere per sè il risarcimento versato dalla Germania, anziché destinarlo obbligatoriamente alla comunità. Martin dedica gli ultimi giorni di vita ad insegnare l'esperanto ad una classe formata da sole tre persone. I legami familiari e la solidarietà con gli altri abitanti del kibbutz sembrano in assoluta antitesi. Il kibbutz rappresenta però la vera famiglia per chi non ne ha nessuna.
Recensioni
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Ripercorrere la storia del popolo ebraico vuol dire necessariamente ripercorrere le tappe che hanno portato alla fondazione dello Stato di Israele, dalle infinite diaspore alla creazione dei kibbutz, fino all’indipendenza. Chiunque abbia un minimo di familiarità con questa storia sa bene cosa siano i kibbutz e quanto importanti siano state queste comunità di lavoro per lo sviluppo del Paese. E chi conosce Amos Oz sa altrettanto bene che la sua attività di scrittore è inscindibile dalla storia del suo Paese - un paese di fatto più giovane di lui – e dalla sua esperienza di vita comunitaria. Oz aveva quindici anni quando, dopo il suicidio della madre, decise di andare a vivere nel kibbutz di Hulda. Inizialmente guidava trattori e faceva il contadino, ma la sua scarsa propensione per i lavori pratici lo rendeva oggetto di scherno da parte degli altri abitanti del villaggio. Non fu semplice: la vita comunitaria comportava il rispetto di regole rigidissime, si rifaceva a un’ideologia socialista che non ammetteva decisioni autonome né proprietà privata. Austerità, essenzialità, lavoro e obbedienza erano i principi cardine di quello che era a tutti gli effetti uno stato nello stato. D’altra parte, i membri esistevano in quanto comunità e non in quanto singoli, e viceversa la comunità si prendeva cura di ciascun abitante come di un figlio. Una “famiglia allargata” insomma, ma, come sostiene lo stesso Oz, “non sempre la famiglia è il paradiso”, e non lo fu neanche per lui. Tuttavia, quando trent’anni dopo decise di abbandonare il kibbutz, la sua attività di scrittore lo aveva reso la principale fonte di sostentamento della comunità, e lasciarla non fu facile.
Così, sebbene conclusa, l’esperienza di vita comunitaria resta un momento fondamentale nell’esistenza dell’intellettuale israeliano e non poteva non avere un riscontro nella scrittura. Nel suo nuovo libro Oz parte proprio da qui: Tra amici raccoglie infatti otto racconti, le storie diverse ma necessariamente collegate, di otto membri di un kibbutz israeliano degli anni Cinquanta. Dapprima ci imbattiamo nel giardiniere Zvi Provizor, uno scapolo di mezz’età, sempre pronto ad annunciare a chiunque incontri notizie catastrofiche o eventi luttuosi avvenuti in qualsiasi parte del mondo, una sorta di Angelo della Morte che tutti tengono doverosamente a distanza. A seguire la storia di due donne, Osnat e Ariela, unite dall’amore per lo stesso uomo - l’una nel ruolo di moglie abbandonata, l’altra in quello di nuova compagna - ma ancor più dalla solidarietà per il reciproco dolore. Vivere in comunità vuol dire però anche dover fare i conti con le proprie aspirazioni, i propri sogni, e le decisioni spesso contrarie dell’assemblea: è quanto accade a Yotam che spinto dal desiderio di viaggiare vorrebbe lasciare il kibbutz, o a Roni Shindlin che, invece di mandare suo figlio alla casa dei bambini, vorrebbe tenerlo con sé.
A muovere i fili della narrazione è una voce che sa di aver vissuto quello che racconta e può, con estrema naturalezza, dire “da noi”. Ed è forse questo il tratto più rilevante dello stile di Oz: il modo in cui, attraverso le vicende dei vari personaggi e dell’io narrante, l’autore riesce a descrivere la quotidianità in ogni suo aspetto, e, senza indugiare sul lato idilliaco della convivenza, restituire al lettore uno spaccato di vita onesto. Per ricordarci quanto sia duro dover accettare decisioni imposte da altri, separarsi dai figli piccoli o fare un mestiere non particolarmente amato ma utile alla comunità, lavorare per rendere un servizio e non per riceverne un guadagno, poiché il kibbutz è un luogo in cui è facile sentirsi compagni, ma diverso è essere amici.
È indubbio che i racconti di Tra amici ritraggono un modello di vita spartana che non appartiene più né agli israeliani né agli europei ed esula dalla realtà odierna. Un quadro storico-sociale che un lettore distratto potrebbe avvertire come lontano e poco interessante. Ma è davvero così? O, in tempi di crisi, quella di Oz è piuttosto una sfida provocatoria lanciata ad una società fondata sul denaro, sulla competizione e la proprietà privata, ma ormai sull’orlo del collasso?
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