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Un libro sulla vita e sulla morte, con tutto quello che ci sta nel mezzo, scritto con ironia e meravigliosa leggerezza, Un libro che ci aiuta anche a capire Israele e la vita quotidiana a Tel Aviv. Bellissimo e consigliato.
Molto al di sotto di quello che mi aspettavo. Poca ironia, noioso a tratti. Piatto a momenti.
Chissà se è stato il proliferare delle scuole di scrittura e di poesia che ha reso la produzione letteraria contemporanea tanto omogenea (omogeneizzata?), banalmente noiosa, impersonale e intercambiabile, o invece il suo appiattirsi su modelli e moduli da serial televisivo, fiction domestica a tinte evanescenti; o ancora la femminilizzazione edulcorata degli stili di vita, dei sentimenti, del privato che si fa pubblico e viceversa... C'è da chiederselo, leggendo libri come questo del celebrato "giovane" scrittore israeliano Etgar Keret ("un genio", l'ha definito il New York Times), assolutamente preconfezionato secondo i dettami dell'editoria salottiera, vendibile-usufruibile-dimenticabile come la maggior parte dei prodotti di mercato declamati nei festival, nelle kermesse, nelle trasmissioni comuni ormai a tutto il pianeta. Una sorta di "Lessico famigliare" meno elegante, meno introspettivo di quello ginzburghiano, cinquant'anni dopo: in cui Keret ci racconta del suo microcosmo domestico, con qualche spiritosaggine ma rara ironia, a partire dalla nascita di suo figlio Lev (dei progressi evolutivi del piccolo, degli entusiasmi e delle delusioni dei suoi genitori). E poi della sorella ultraortodossa, del fratello geniale e fallito, dei compagni di scuola persi e ritrovati. Della moglie, della mamma, del papà. E di sé, dei suoi viaggi intercontinentali per presentare le sue pubblicazioni, dei rapporti con gli editori e il pubblico. Sullo sfondo di una Tel Aviv sempre in attesa di saltare in aria per un attacco terroristico, e perpetuamente in bilico tra odio razziale e religioso, paura, sensi di colpa, desiderio di vendetta: ma così, a spruzzatine incorporee, con ammiccamenti di superficie. Insomma, ridateci Oz, Grossman, Yehoshua. Ci sanno raccontare più cose, e meglio, dell'ebraismo e di Israele. E anche di se stessi.
Recensioni
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Sette anni di felicità è l’ultima fatica, edita da Feltrinelli, dello scrittore israeliano Etgar Keret. Di origini polacche, figlio di sopravvissuti all’Olocausto, Keret narra come negli ultimi sette anni la sua vita sia cambiata. L’autore, quasi cinquantenne, si racconta nel suo libro più intimo, il primo autobiografico, in cui riesce a trovare il buono anche dove è difficile vederlo. Questa storia speciale, dedicata alla madre e pubblicata nella traduzione di Vincenzo Mantovani, appare prima in Italia che nel suo paese. E’ un viaggio tra emozioni, humor e politica.
Sette anni di felicità è un’opera formata da sette parti (una per anno) e trentasei racconti brevi, ognuno dei quali narra un episodio della vita dell’autore a Tel Aviv, dalla nascita del figlio Lev alla morte del padre. Una vita divisa tra famiglia, attentati, impegni, tassisti irascibili, bombardamenti… Una vita di piccoli aneddoti, più o meno strazianti o divertenti, per la quale è facile provare simpatia. L’unico problema è orientarsi, almeno all’inizio, perchè i racconti non sembrano seguire un filo logico e tutto può diventarne oggetto: un videogioco, uno dei tanti allarmi aerei, uno scontro verbale con un tassista indisponente, la storia della sorella ultraortodossa e dei suoi undici figli, i dialoghi con il piccolo Lev..
La narrazione si apre con un allarme missilistico nel momento della nascita del figlio. È il tema del primo racconto. Il libro si chiude con il racconto di un altro allarme. Nel mezzo un periodo della sua vita, tracciato quasi con leggerezza, nonostante l’autore abbia avuto molti problemi tra cui la malattia e la morte del padre. Sette anni di felicità mette a nudo momenti privati e molto intimi con una buona dose di ironia ed umorismo: “il metodo Keret” per documentare le tragedie familiari. Come non riconoscergli una grande abilità nell’ ironizzare su ogni evento della vita cercando di trarre, anche dai momenti peggiori, qualcosa per cui esser contento di stare al mondo? Leggendo queste pagine si ha l’impressione che la scrittura sia stata utilizzata con valenza terapeutica. Quando non si ha alcun potere contro certi fatti della vita è proprio attraverso l’ironia che questi si possono canzonare permettendo a chi li vive di estraniarsi da essi. Pertanto, consegnandoci un resoconto divertente Keret si presenta ai lettori come uno scrittore innamorato della vita pur vivendo in un paese stressato dalla guerra.
Alcuni punti fermi sanciscono la riuscita del libro: qualità e cura della scrittura; l’uso dell’ironia con accenti commossi e malinconici; la capacità di sintesi, perché condensare sette anni in poco più di 150 pagine non è da tutti; l’abilità di trovare in ogni male un aspetto positivo; raccontare con grande disinvoltura i terribili avvenimenti politici che accadono in Israele.
Comico e drammatico convivono: si ride leggendo questo libro, ma ci si commuove anche, ci si affeziona ad ogni personaggio e soprattutto si riflette. E per invitarvi alla lettura nulla di meglio delle parole del suo autore: “Per le prossime 200 pagine, dividerete la carrozza del treno con me. E quando arriverete all’ultima pagina io scenderò alla mia fermata e probabilmente non ci incontreremo mai più. Spero che qualcosa di questo viaggio, durato 7 anni e che comincia con la nascita di mio figlio e finisce con la morte di mio padre, tocchi anche voi”.
Recensione di Clara Domenino
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