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Borgna insiste continuamente sull’importanza del dialogo con il paziente, sull’ascolto della sua storia, sull’approccio fenomenologico e lamenta il distacco, la freddezza della psichiatria organicistica… Poi però afferma che l’approccio “umanistico” e dialogante dovrebbe rafforzare la conoscenza clinica propria di una psichiatria rigorosa. Ma quando esamina le poesie di Antonia Pozzi e Sylvia Plath mi pare evidente che l’insistenza sugli aspetti clinici e diagnostici (che riconoscono in alcune oscurità e apparenti incongruenze d’immagini segni di psicosi, dissociazione e patologia) gli impedisca una lettura più profonda del testo. Non si rende conto che, appena compare lo sguardo clinico, svanisce la comprensione della persona. Nel momento in cui dice: “Qui c’è un sintomo psicotico” ecco che il significato profondo di ciò che è scritto, il suo rinvio al mistero, all’insondabile, all’indicibile svanisce e si condanna alla cecità! Quando uno psichiatra non capisce, diagnostica una psicosi. Più interessante e coinvolgente il discorso su Dostoevskij, sui trapiantati d’organo, dove, cioè, non c’è più il vincolo dell’inquadramento diagnostico di stretta competenza psichiatrica. Ma dove quest’ultimo compare, l’umanità dello sguardo s’impoverisce e l’analisi si fa assolutamente superficiale. Borgna cerca di tenere i piedi in due scarpe: vorrebbe, da una parte, salvaguardare la comprensione umana e, dall’altra, il rigore di un preteso approccio scientifico e clinico della psichiatria. Da questo libro, che vorrebbe dimostrarne la complementarietà, mi pare che questi due aspetti escano invece, al di là delle lodevoli intenzioni dell’autore, ancor più radicalmente irriducibili. La stesura del libro appare poi piuttosto affrettata, data la frequente e monotona riproposizione, con parole pressoché identiche, delle tesi di fondo dell’autore. Sembra perciò essere del tutto mancato un lavoro di revisione e di ripulitura del testo che ne avrebbe migliorato la leggibilità. M’è parso notevole il capitolo “Le voci” dove una lett
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