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Anno edizione: 2017
Anno edizione: 1997
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Un libro discreto,alcune storie belle alcune storie troppo lunghe e quindi risultano un po' noiose. Per il resto è un libro divertente con delle storielle belline.
Non é malaccio, anche se mi aspettavo altro. Il libro mi ricorda un pò troppo i Darwin Awards. E' a tratti divertente, a tratti stupisce a tratti però risulta di troppo lungo respiro. Direi un libro "senza infamia e senza lode", almeno ai miei occhi, perciò solo un 3/5.
Recensioni
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recensione di Roat, F., L'Indice 1995, n. 2
recensione pubblicata per l'edizione del 1994
Fin dall'esordio de "Il poema dei lunatici", il filone narrativo di Ermanno Cavazzoni si è incentrato su figure emblematiche di alienati, siano essi stravaganti "diversi" in bilico tra anticonformismo e paranoici furori, veri e propri matti da slegare (tanto inoffensivi quanto patetici), burloni o vecchietti un po' suonati. E anche il recente "Vite brevi di idioti" non si discosta dal genere, venendo a porsi come una raccolta di trentuno storie di emarginazione all'insegna d'una più o meno svagata follia, declinate attraverso una sorta di calendario mensile che registra giornalmente il sunto o l'episodio saliente della vita "di una specie di santo", seppure profano, quale si configura ognuno degli idioti di questo bizzarro lunario. "Vite brevi di idioti" si pone da contraltare alla penultima opera letteraria di Cavazzoni, "Le leggende dei santi" (ossia la traduzione debitamente "infedele" della "Legenda aurea" di Jacopo da Varagine), in cui vengono narrate venticinque altrettanto brevi vite, sebbene di beati, segnate da un"'ilarità e spensieratezza" che fa d'ognuno di loro una sorta di 'trickster', rendendo quasi tutti i santi assai simili ai folli profani del libro successivo, in quanto il mistico, avendo preso le distanze dal mondo e sprezzandolo, può apparire una sorta di alienato. È noto come pure Cristo in una circostanza sia stato considerato fuor di senno dai discepoli (Mc, 3, 21), e come vari tra i profeti dell'Antico Testamento assumessero atteggiamenti provocatoriamente dissennati.
Il parallelo idiota-santo è confermato in modo esplicito nel brano del giorno 20 (forse il racconto meno umoristico), in cui a una piccola visionaria appare la Madonna, e in quello del 27, dove l'idiota di turno si comporta proprio come uno dei santi di Jacopo da Varagine, attribuendo al diavolo la causa della sua e altrui sofferenza (nella fattispecie il demonio è considerato responsabile degli incidenti stradali).
Quindi, più che idioti in quanto tali, benché la maggior parte di essi paiano affetti da una qualche forma di insufficienza mentale, i santi profani di Cavazzoni sembrano indicarci come la loro alienazione non sia tanto un modo di porsi fuori dal mondo, ma esprima un diverso modo di rapportarsi nei confronti di esso (l'unico che siano in grado di "gestire"), il quale si manifesta in una progettualità diversa, che agli occhi dei "normali" appare segno d'una idiozia che, specularmente, gli idioti ritengono appannaggio dei sedicenti sani di mente. ("La stampa era fatta di idioti; le autorità similmente si comportavano da idioti in questa faccenda, in primo luogo i vigili urbani" afferma il protagonista del racconto 27, stupendosi del fatto che ci si ostini a non vedere nel diavolo la causa del male).
Di conseguenza anche la parola, lo strutturarsi del linguaggio che negli idioti segue necessariamente una grammatica aliena e i cui significanti alludono a significati altri, diviene motivo di incomprensione e frattura tra il diverso e i suoi interlocutori; così quando la "Puttana fallita" del brano 23 apostrofa dei supposti iracondi chiamandoli "rabbini", essi, non sapendo tradurre quanto lei intendeva - e cioè che a suo dire scoppiavano di rabbia -, non possono comprenderla. Ma sebbene gli idioti altro non cerchino che di farsi intendere, uno iato invalicabile pare separarli da coloro i quali non riescono a prestare orecchio al grido di dolore di quanti con logiche diverse tentino di esperire un senso nel non senso del vivere, di scongiurare, seppure mediante esorcismi di follia, la propria angoscia di fronte alla caducità e vulnerabilità dell'esistenza. Come tenta di fare il "Nemico della velocità", ossessionato dal fatto che "la Terra è lanciata nello spazio senza controllo, e nessuno sa come da un momento all'altro possa finire". E davvero qui Cavazzoni celebra non più implicitamente l'acume di questo suo "lunatico", rimarcandone la vocazione speculativa nel mostrarcelo a considerare la Luna "come la guarderebbe un filosofo, cioè come un corpo insensato che va a rotta di collo".
Mentre sono i "savi" nella loro presunzione di poter tracciare una esatta mappatura delle supposte disfunzioni interpretative degli insani, per non smarrire la sicurezza d'essere dalla parte della ragione, a recitare il ruolo di autentici idioti. E se dottori e professori qua e là in vari episodi burleschi vengono puntualmente gabbati da chi dovevano esaminare, con la "breve vita" di Cesare Lombroso, dove si irride l'assurdo delle misurazioni frenologiche, il ribaltamento idiota-savio diviene esemplare. Solo alla la fine di questo ironico, divertentissimo libretto o libello contro la sicumera di certa razionalità o l'idiozia sottesa al comportamento di un'allarmante "normalità", in una sorta di epilogo "in soprannumero", la scrittura da faceta, arguta e didascalica, dismesso il registro ilaro-tragico, piglia un tono pacato, accorato (sebbene mai pietistico o retorico), abbandonando lo svelto calendario delle vite brevi, per dar voce nelle tre paginette conclusive a un personaggio tanto anonimo quanto smemorato, assente, perso in un'amnesia o stupore quasi catatonico da alieno. Lo scenario è un ufficio, forse la sede di un commissariato di polizia, dove poveri anziani derelitti senza nome, senza casa e senza amore finiscono talvolta per essere condotti a causa di un'urgenza formale, d'ordine pubblico, onde essere identificati, prima di venir consegnati allo squallore di un ospizio.
È ancora pur sempre l'interrogatorio, l'investigazione del savio sul folle, ma questa volta non già volto a diagnosticare l'idiozia degli umili, sebbene a sottolinearne l'impotenza della parola istituzionalizzante, regolatrice, asseverativa: incapace di risolvere quell'enigma che rappresenta comunque l'altro, per ognuno. Potrebbe esserci, in luogo della parola, il silenzio. Il silenzio del semplice che tace per non restare irretito dai vaniloqui dei savi; attraverso il quale però le loro alterità potrebbero, per silente empatia, comunicare.
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